Il suo nome sembra quello di un atleta olimpico sullo sfondo, con una divisa un po’ anonima, intento a vincere l’oro in una disciplina che seguono solo in dieci, mentre qualcun altro è intento a superare uno dei propri record personali. Lo vedo bene nel salto in alto ventrale o in una canzone a caso degli OfflagaDiscoPax, che poi è lo stesso. La realtà invece è tutt’altra, in un’epoca che oramai ha abbattuto steccati culturali e sostanziali.
Per accorgersi che il greco Yorgos Lanthimos (qui la nostra intervista) ha di che spartire con Vladimir Yashchenko come Paolo Nutini con la Toscana bastano pochi frame di The Lobster, prima pellicola internazionale con protagonista il ben noto Colin Farrell che ha infiammato Cannes vincendo pure il Premio della giuria nell’edizione del 2015 – dopo aver fatto incetta di riconoscimenti per mezza Europa. Girato in meno di tre mesi, col primo ciak il giorno del mio compleanno del 2014, il film si mostra subito come un tuffo in un futuro distopico sfrontato che sacrifica tutto al servizio di un simbolismo sociale che narra una delle possibili derive del mondo odierno.
Estremizzando, ma per qualcuno potrebbe anche risultare come un’esemplificazione, vista l’assenza di elementi tecnologici e/o futuristici, l’educazione sentimentale di Spike Jonze in Her (termine di paragone obbligato, dato che l’aspetto interpersonale narrato è quello della morte dei sentimenti per come siamo abituati a intenderli), Yorgos Lanthimos indaga l’amore in un mondo surreale e porta il sincretismo a un affascinante livello totale che strizza l’occhio ora a Stanley Kubrick, ora a Wes Anderson e, nella scena dell’inseguimento nell’hotel, a entrambi.
Per qualcuno – per capirci quelli che adorano il cinema cinese ma odiano John Woo da quando è andato ad Hollywood – il passaggio da una realtà assurda ma circoscritta, come accadeva nel mondo isolato dei tre ragazzi segregati in casa di Kynodontas (Dogtooth in inglese, forse l’apice finora raggiunto da Lanthimos), a una realtà interamente surreale porta a un’inevitabile sfumatura grottesca facile allo sberleffo; perché priva di appigli con il reale che ci ospita e con quello che potremmo aspettarci in futuro: molto più semplice vedere un ciborio hi-tech di cui invaghirci come nel già citato Her che un albergo con lo scopo di ricollocare sentimentalmente umani single, pena l’essere trasformati in un animale.
Peccato solo che, pensandola così, si dovrebbe fare dell’ironia anche su pellicole come Brasil di Terry Gilliam, oppure Delicatessen di da Jean-Pierre Jeunet o, fate un po’ voi, non so, magari anche su quel 1984 di George Orwell. E comunque no problem: ne La Favorita, da poco uscito nelle sale, Yorgos si cimenta con un racconto storico-biografico, seppure strizzando l’occhio agli insegnamenti di un altro grande regista greco, il compianto Theo Angelopoulos, il quale diceva: “La questione è semplice: siamo arrivati alla convinzione che un film non è fatto per raccontare una storia. Dobbiamo trovare solo uno stile e una forma per raccontare come viviamo, cosa abbiamo intorno e dove sta oggi il mondo”. Per Lanthimos il mondo si trova nel punto in cui ce lo mostra, indipendentemente dalla storia in sé.
È una forma molto radicale ma necessaria. Si tratta di un cinema del paradosso, basato su di un simbolismo semplice e allo stesso tempo dirompente, per di più girato con l’ausilio minimo di montaggio ed effetti. Poetico nel suo essere storto. L’hotel di The Lobster come la casa de Il Sacrificio del Cervo Sacro sono l’esteriorizzazione della condizione psicologica di chi si trova da solo e sente la pressione, esercitate dalla società, di dovere trovare una soluzione per risultare vincente. Quindi se l’individuo che è costretto a primeggiare non potrà mai farlo, riuscirà invece soltanto in una condizione di divieto, quando questo è severamente proibito e quindi, di nuovo per un paradosso, incentivato. Ne viene fuori un rapporto interpersonale sempre ostacolato e persino struggente. Tanto che c’è chi ha intravisto in lui il sadismo metaforico di Lars Von Trier. Ma, a più ampio respiro, potrebbe non trattarsi dei sentimenti ma del rapporto tra volontà e rappresentazione attraverso il controllo delle religioni, della politica e dei poteri forti sulle vite di tutti.
In tutti i suoi film, che vi consiglio di vedere per comprendere meglio il 43enne regista di Atene, una parte importante è nel linguaggio, preso a trecentosessanta gradi. Comprensivi dell’assenza dello stesso. Se non abitate in provincia, quindi, vi consiglio caldamente l’originale (ovvero non doppiato dai nostri opinabili doppiatori), dove il greco, l’inglese e il francese si mischiano tra di loro ampliando la rosa dei significa(n)ti, esplodendo poi laddove il linguaggio verbale viene sostituito da quello dei gesti, degli sguardi o, nel caso di Kynodontas, dove c’è un linguaggio distorto e parole come “mare” o “autostrada” o “telefono” hanno un senso reale nascosto.
In questo il cinema di Lanthimos conserva un primato come forma d’arte, rimettendo in causa le ragioni del cinema stesso e rilanciando le ragioni stesse di quel modernismo poetico-politico che ne hanno determinato illo tempore la nascita con autori come Nikos Koundouros o Nikos Nikolaidis. Non è un cinema semplice (anche solo a pronunciarne i nomi, direi) ma un’autentica lezione di cinema immortale. Dove la sensualità dell’immagine è sublime e politica. Memore di ben più grandi stagioni cinematografiche.
Qualcuno parla di film grotteschi e pessimisti, gente a cui evidentemente va tutto una bomba, mentre i suoi attori internazionali parlano di “sceneggiatura insolita, diversa da qualunque altra, che o ti piace o rifiuti” (Colin Farrell) e di “un modo di girare visionario, nulla a che fare con la regia hollywoodiana” (Emma Stone, che abbiamo intervistato per La Favorita). Analisi che ricordano l’ebbrezza di Nicole Kidman quando con un altro grande regista, lo spagnolo Alejandro Amenábar, accettò il ruolo di protagonista in The Others. Ma questa è un’altra storia.
Yorgos, fortunatamente, non è solo. La vitalità del cinema greco è sotto gli occhi di tutti. In particolar modo a godere di ottima salute è il filone drammatico, misantropico, post-europeista o comunque lo vogliate chiamare che negli ultimi anni è diventato luogo eletto del dissenso cinematografico rispetto a una politica devastante. Tra i nomi più interessanti si distinguono Athina Rachel Tsangari che, nell’amore e morte messo in scena nel 2005 in Attenberg (questo realmente debitore al cinema di Von Trier), aveva come produttore e attore proprio quel Lanthimos di cui abbiamo finora parlato, e Alexandros Avranas che sconquassò Venezia nel 2013 con Miss Violence (nulla a che vedere con la Lady Vendetta di Park Chan-wook). Qualcuno li ha già definiti giustamente il Tridente Ellenico degli anni Zero. Tutti e tre, attraverso l’idea del tirocinio umano, sentimentale e sessuale, adesso devastato, adesso devastabile, sono in grado di unire con efficacia straordinaria tanto le istanze del racconto sociale che le astrazioni del discorso teorico, come nemici dell’establishment culturale globale. Avranas è il più giovane (1977) e Tsangari la più anziana (1966) e la più internazionale (avendo collaborato anche con Richard Linklater quando era ancora un indipendente).
Nel corso degli anni sono diventati portavoce motivati e radicali della desolazione industriale e urbanistica di un’Acropoli a strapiombo sull’inadeguatezza e la solitudine più che sul mare. Creando epigoni di tutto rispetto: penso a Yorgos Zois, trentasettenne regista di Interruption, film geniale da vedere tassativamente solo al cinema, oppure a Babis Makridis, autore di quel Pity in grado di creare uno humor irresistibile, prima di suscitare una tristezza inconsolabile.
Ritenendo la Grecia la mamma d’Europa, tutti noi oscilliamo tra empatia e angoscia per idee aberranti non troppo lontane dal nostro mo(n)do di temere le cose (la solitudine, l’isolazionismo, la paranoia, il plagio, la rivalità, la vendetta, l’incomunicabilità, l’incolumità nostra e dei nostri cari). Purtroppo questi registi sono poco noti in Italia, mentre nel resto d’Europa i loro film ottengono già passaggi in televisione come lucidissimi autori disturbati e instancabili polemisti in una società oramai al tracollo. Rappresentando quella cultura della critica e del dubbio inconscio e mai banale che da sempre è il sale di quel cinema che amiamo di più e che è in grado di smuovere il cervello di chiunque lo veda. Come del resto molti di quei registi di frontiera che, dalla Finlandia alla Russia, passando dall’Iran al Cile, a un certo punto hanno visto la luce, aperto gli occhi e hanno deciso di raccontare qualcosa di (vecchio in modo) nuovo.