«Impara a ballare Laura, non farti coinvolgere dai drammi dietro le quinte e prenditi dei rischi: vai sul bordo della scogliera e scegli ruoli che le altre ragazze non sceglierebbero». Papà Bruce, in un solo consiglio dato a una giovane Laura Dern all’inizio della sua carriera, in un certo qual modo ha perfettamente riassunto quella che sarebbe stata la sua parabola. Da interprete che ha davvero sempre saputo gettarsi oltre l’orlo del precipizio a diva da Oscar: il primo, per Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, è arrivato alla vigilia del suo compleanno l’anno scorso.
Laura, legalmente emancipatasi appena sedicenne dai genitori (il suddetto Bruce e Diane Ladd, entrambi attori), è sempre stata una tipa sveglia, matura e piuttosto impavida, tanto che a venticinque anni aveva già interpretato una bella carrellata di personaggi non di facile digestione: un’adolescente incinta e piena di problemi in Teachers di Arthur Hiller; una ragazza cieca in Dietro la maschera di Peter Bogdanovich; una studentessa dolorosamente innocente che sogna pettirossi in un mondo andato in malora in Velluto blu e un’amante libidinosa e fuorilegge in Cuore selvaggio, ambedue di David Lynch.
Nel decennio dello yuppismo, lei sembra non sbagliare un colpo e diventa la musa di un Lynch in stato di grazia, che non solo la consacra, ma la traghetta negli anni ’90. Dopo Velluto blu – unanimemente acclamato da critica e pubblico –, è il turno del disturbante e grottesco Cuore selvaggio (nel quale recita con la madre Diane Ladd), che si aggiudica la Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 1990. L’anno successivo, di nuovo accanto a Diane Ladd, è diretta da Martha Coolidge in Rosa Scompiglio e i suoi amanti, e mamma e figlia ricevono due nomination agli Oscar, rispettivamente come migliore attrice non protagonista e protagonista: non vinceranno, ma Dern ha ormai ottenuto la sua consacrazione istituzionale.
Nel 1993, un altro passo importante nell’industria hollywoodiana. È Ellie Sattler, la paleobotanica co-protagonista di Jurassic Park, firmato Steven Spielberg. Sam Neill la ricorda come una persona dotata di un «perverso e sovversivo senso dell’umorismo». Alla storia, la sua è passata come un’intrepida dottoressa che fruga negli escrementi di dinosauro e abbatte il sessismo scientifico caratteristico dei personaggi dello stesso Neill e di Jeff Goldblum. Non a caso, svariate organizzazioni post #MeToo e Time’s Up hanno cominciato a utilizzare, come grido di battaglia, la sua battuta «La donna eredita la Terra», riesumandola su adesivi e t-shirt. Il successo di Jurassic Park è planetario, gli incassi sono da capogiro, ma per Laura Dern ciò non significa vendere l’anima ai blockbuster: «Non volevo diventare la classica ‘attrice del momento’ o venire incasellata», ha spiegato al Washington Post, «bensì crescere e imparare dai grandi registi. Ho operato delle scelte strategiche per costruire un corpo di lavoro che un domani mi avrebbe dato la possibilità di vestire i panni di chiunque avessi desiderato».
La lista dei film in cui recita è impressionante: scorrendola, si è quasi portati a pensare «Ma come, era anche in quel film lì?». Sì, era in Un mondo perfetto di Clint Eastwood; in La storia di Ruth, donna americana di Alexander Payne; in Il dottor T & le donne di Robert Altman; in Mi chiamo Sam di Jessie Nelson; in The Master di Paul Thomas Anderson; in Wild di Jean-Marc Vallée, che le vale la seconda nomination all’Oscar come best supporting actress. A onor del vero, i suoi ruoli da comprimaria, sebbene lodati e applauditi, sono stati spesso e volentieri offuscati dal gossip e dalle relazioni avute con Kyle MacLachlan, Jeff Goldblum, Billy Bob Thornton (che nel 1999 la piantò per Angelina Jolie), Ben Harper (con cui si sposò ed ebbe due figli, salvo poi divorziare nel 2012), il rapper Common, l’ex star dell’NBA Baron Davis. Vuoi insomma per la sete di pettegolezzi, vuoi per il fatto che Laura Dern non sia mai stata una bellezza canonica, ma al contrario risultasse troppo concettuale e tormentata per agitare i sonni dei fan: insomma, abbiamo avuto l’impressione che la sua stella si fosse oscurata, scomparendo dai radar della Hollywood che conta. Ecco perché, quando nel 2017 viene scelta per la parte della strabordante Renata Klein nella serie tv Big Little Lies diretta da Jean-Marc Vallée (aggiudicandosi un Emmy Award e un Golden Globe), in molti hanno parlato di Dernaissance, di «seconda vita», di «rinascita».
In realtà Dern non era affatto sparita: nel corso degli anni, anziché specializzarsi in un ruolo (vedi alla voce: Patricia Arquette), ha imparato ad abitare una sbalorditiva varietà di personaggi, mantenendo intatta la sua essenza. Un’essenza che è fatta sia di gesti e sguardi minimi, eppure rivelatori di un’estrema complessità, sia di una teatralità («I will not NOT be rich!») che in mano ad altri potrebbe rivelarsi letale, ma che padroneggiata da lei diventa divertente, inattesa, tremendamente sincera. Tutto sembra possibile quando è sullo schermo, capace com’è di proiettare vitalità e familiarità – non è forse proprio Renata l’unica cosa salvabile della seconda stagione di Big Little Lies, l’unica delle Monterey Five a piacerci fino in fondo? – ma anche un’imprevedibilità vagamente selvaggia.
Il pubblico torna ad accorgersi della sua esistenza. E le partecipazioni a Star Wars – Gli ultimi Jedi, al terzo Twin Peaks di David Lynch e, adesso, a Storia di un matrimonio di Noah Baumbach e a Piccole donne di Greta Gerwig non passano più inosservate, anzi. Jeans aderenti, un paio di Louboutin Pigalle rosso fuoco, un top bianco e una cascata di capelli biondi freschi di parrucchiere: «Sorry I look so schleppy», dice a Scarlett Johansson in Storia di un matrimonio, che la guarda e abbassa gli occhi un po’ incredula, perché se tu sei trasandata figurati io, che sto affrontando un maledetto divorzio e mi sento uno schifo. L’ultimo capolavoro di Dern è Nora Fanshaw, l’agguerrita avvocatessa divorzista di Nicole/Johansson: bella ma spietata, senza cuore ma esilarante, una donna impegnatissima a mandare sms che di colpo s’interrompe e consegna un incredibile monologo sui fuorvianti doppi standard di matrice giudaico-cristiana che la società occidentale ancora utilizza nei confronti delle madri. Per Laura Dern è la conferma definitiva: vince Golden Globe, BAFTA, Hollywood Film Award, Critics’ Choice Awards, SAG Award e – finalmente – l’Oscar come migliore attrice non protagonista, accolto con un discorso che commuove mezzo Dolby Theatre. «This is the best birthday present ever», conclude emozionata e sorridente, in quel vestito rosa e nero che (ahinoi) non le rende sufficiente giustizia.
La rivista Vulture, che c’aveva visto lungo, lo scorso novembre – nell’ambito del Vulture Festival – le ha voluto conferire una laurea ad honorem, e lei, a tal proposito, ha ricordato quel grande attore che l’aveva paragonata a Charles Laughton. «Lì per lì la cosa non mi era piaciuta, ma poi, imparando di più su Laughton e sulla sua capacità di trasformarsi e di interpretare così tanti personaggi diversi, ho capito che si trattava del migliore complimento di sempre»: vero, poiché entrambi hanno compiuto alcune delle scelte di recitazione meno convenzionali della storia del cinema, restando comunque fedeli a loro stessi. Ed è lì che sta il segreto dell’eclettica Laura, che in qualche strano e inspiegabile modo riesce a essere Nora Fanshaw, Renata Klein, Ellie Sattler, Diane Evans, Sandy Williams o Lula Pace Fortune. E a rimanere sempre, in fondo, Laura Dern.