È stato un anno in cui alcuni nuovi nomi si sono assicurati un posto d’onore nella A-list, alcune star si sono reinventate – o meglio ancora, sono tornate al tipo di ruoli più spigolosi dei loro esordi – e alcuni attori ci hanno ricordato perché sono considerati i migliori in quello che fanno. Ci sono stati una manciata di artisti che sembravano onnipresenti – i fan di Nicholas Hoult, George MacKay e Fred Hechinger, ognuno dei quali ha interpretato tre o quattro film importanti nel 2024, avevano molto di cui essere felici – e uno o due veterani che hanno fatto graditi ritorni sotto i riflettori (ma non chiamateli ritorni… sono qui da anni!). Alcuni sono diventati veri e propri camaleonti del Metodo, e molti hanno sfruttato i loro punti di forza già ben collaudati in un modo che si sono costruiti in anni di osservazione e lavoro tra “azione!” e “stop!”.
Non c’è dubbio: il 2024 è stato un grande anno per la recitazione sul grande schermo, e cercare di restringere il campo delle performance che ci hanno commosso, scosso, emozionato, fatto ridere a crepapelle e ridotto a singhiozzanti relitti a soltanto 10 non è stato facile (tecnicamente, qui ci sono 11 voci, ma… vedrete). Da un ex Bond che ritorna alle sue radici a una vincitrice dell’Oscar che ancora una volta si spezza nel miglior modo possibile, questi sono stati gli attori che ci hanno reso felici di essere fanatici del cinema negli ultimi 12 mesi.
(Extra shout-out a: Timothée Chalamet in A Complete Unknown, Lily Collias in Good One, Ethan Herisse e Brandon Wilson in Nickel Boys, Julia Louis-Dreyfus in Tuesday, Cynthia Erivo in Wicked, Mia McKenna-Bruce in How to Have Sex, Guy Pearce in The Brutalist, Jeremy Strong in The Apprentice – Alle origini di Trump e Fernanda Torres in Io sono ancora qui.)
Daniel Craig
Queer
Non che Daniel Craig avesse ancora bisogno di uscire dall’ombra della spia più famosa della storia del cinema: il suo detective Benoit Blanc con accento del Sud che canta Sondheim nei film di Knives Out aveva già portato a termine quella missione. Ma vederlo interpretare un giovane William Burroughs in Queer (nelle sale italiane dal 13 febbraio, ndt), che si trascina per una surreale città di confine messicana alla ricerca di sesso, droga e, be’, ancora sesso, è un eccellente promemoria per quanto riguarda la sua gamma e il rigore nello scandagliare la profondità di un personaggio. Si è parlato molto delle sue scene di sesso esplicite con il co-protagonista Drew Starkey, che interpreta il giovane uomo che tenta lo scrittore disperato d’amore di Craig, ma sono le scene della vulnerabilità di Burroughs e dell’incapacità di sincronizzarsi con il suo oggetto del desiderio che sembrano davvero audaci. E anche se fa intravedere la futura icona Beat nell’adattamento del romanzo by Luca Guadagnino, è il modo in cui racconta l’essere umano sotto il personaggio hipster che arriva al cuore qui. Per quelli che hanno notato Craig per la prima volta quando interpretava l’amante di Francis Bacon in Love Is the Devil (1998), l’esperienza di lui che ora interpreta l’artista più anziano che si strugge per la sua sfuggente e più giovane musa sembra davvero un cerchio che si chiude.
Kieran Culkin
A Real Pain
L’opera seconda di Jesse Eisenberg (in arrivo in Italia il 27 febbraio, ndt) ruota attorno a un duetto, con lo sceneggiatore-regista e Kieran Culkin nei panni di due cugini un tempo vicini e molto diversi durante un viaggio in Polonia. Ma Eisenberg ha generosamente regalato alla sua spalla il tipo di ruolo impetuoso che la maggior parte degli attori può solo sognare, e Culkin premia il suo regista/collega con la performance più bella, divertente, comica e straziante della sua carriera – e sì, contiamo anche Roman Roy di Succession. Il suo stoner Zen è come una bomba di puro carisma, che guida i suoi compagni di tour in un servizio fotografico davanti al Monumento all’insurrezione di Varsavia. Quella luce interiore che emana da lui è ciò che rende perdonabili, se non del tutto accettabili, le occasionali nuvole tempestose di rabbia e la raffica di commenti schietti e sbottati. L’attore lo interpreta da una parte come un buontempone senza filtri, dall’altra come un adorabile cucciolo di cane che fa la pipì sul tappeto. “Lo amo, lo odio, voglio ucciderlo, voglio essere lui”, dice il personaggio di Eisenberg a un certo punto di suo cugino. E noi, grazie a Culkin, capiamo ognuno di quegli impulsi.
Nicole Kidman
Babygirl
Nicole Kidman non è mai stata un’attrice che sceglie ruoli sicuri a scapito di quelli rischiosi: dopotutto parliamo di un’interprete che si è tuffata a capofitto in Eyes Wide Shut, Il sacrificio del cervo sacro, Destroyer e The Paperboy. Ma c’è la vulnerabilità sullo schermo, e poi c’è il lavoro di Kidman diretta da Halina Reijn in Babygirl (uscita italiana 30 gennaio, ndt), la storia di una CEO sessualmente insoddisfatta che trova pane per i suoi gusti sessuali nel nuovo stagista Harris Dickinson. Ecco cosa intendono le persone quando parlano di attori “coraggiosi”, una parola che viene usata troppo liberamente. Ma qui Kidman si guadagna la definizione: ci regala un ritratto del desiderio femminile che sembra mille volte più nudo psichicamente che esposto fisicamente. È possibile tracciare il viaggio del suo personaggio dalla reticenza e confusione nel cedere ai suoi bisogni alla sua rabbia verso sé stessa per aver anche solo preso in considerazione l’idea, fino al senso di liberazione libidinosa una volta che lo fa, il mix di sollievo e vergogna per averlo fatto, e il volerne di più. Abbiamo già detto che tutto questo viene comunicato senza una parola, in una sequenza in cui il suo personaggio raggiunge con riluttanza l’orgasmo? Non solo Kidman mostra l’appagamento sessuale di questa donna: è il modo in cui racconta tutto quello che accade intorno, nella maniera più intima e narrativa possibile.
Natasha Lyonne
His Three Daughters
Non sembra giusto individuare una sola interprete nella storia dello sceneggiatore e regista Azazel Jacobs su un trio sorelle che si prende cura del padre durante i suoi ultimi giorni: è un film che racconta la delicata relazione tra Carrie Coon, Elizabeth Olsen e Natasha Lyonne, ognuna delle quali bilancia la dinamica familiare che fa letteralmente cantare questo dramma. Eppure è Lyonne che qui ci lascia davvero distrutti, e quella che sembra correre il rischio più grande. Adoriamo questa interprete: bingeremmo Poker Face e Russian Doll da oggi fino alla fine dei giorni (e qui le sue battute con la guardia di sicurezza di un complesso di appartamenti danno ancora un assaggio delle battute magiche di Lyonne). Ma la sua interpretazione nei panni della figlia più giovane, chiusa nel suo rancore e intrappolata tra le sue sorelle yin e yang è una masterclass su come ritrarre un personaggio debole e renderlo comunque avvincente. Ci sono momenti in cui pensi che Lyonne si chiuderà fisicamente in sé stessa come una tartaruga nel suo guscio. Altri in cui, dopo aver perso la testa, sembra che debba prendere fuoco. E altri ancora dove, arrivata a un punto di comprensione reciproca, si rannicchia accanto alle sue sorelle e ti ricordi che non è solo un’attrice comica. È semplicemente un’attrice, una delle migliori della sua generazione.
Mikey Madison
Anora
Forse conoscevate già Mikey Madison per il suo lavoro in Better Things, la serie FX in cui lei e la creatrice Pamela Adlon hanno messo in scena una relazione complicata e fin troppo realistica tra madre e figlia adolescente per cinque stagioni. Oppure potreste averla riconosciuta come uno dei membri della famiglia Manson che ha incontrato una fine piuttosto stravagante in C’era una volta a… Hollywood. Ma dopo aver visto il modo in cui Madison ravviva, approfondisce, solleva e alla fine prende il volante della commedia di Sean Baker, non la dimenticherete mai. È un ruolo da protagonista di primissimo ordine, e dire che lei trae il massimo da questa parabola su una spogliarellista che accetta la proposta di matrimonio di un ricco ragazzo russo – solo per affrontare il caos che ne deriva quando gli scagnozzi di suo padre urlano “niet” – è un eufemismo. In effetti, è così facile rimanere stupiti dai denti, dagli artigli e dai cajones di acciaio inossidabile che regala a questa survivor indurita dalla battaglia, che potreste perdere il lavoro sottile che fa sotto tutte quelle urla e quella furia. Non riusciamo ancora a toglierci dalla mente l’ultima scena, quando lei e Yura Borisov – che inseriamo nella lista in questo momento – trasformano quello che inizia come un altro accordo transazionale in qualcosa di tenero e devastante. È davvero nata una stella.
Marianne Jean-Baptiste
Hard Truths
Non è mai esistito sullo schermo un personaggio come Pansy Deacon, nemmeno in un film di Mike Leigh (e parliamo del gentleman che ci ha regalato Naked – Nudo). Ha la tendenza a sputare veleno come un cobra contro chiunque stia parlando, indipendentemente dal fatto che si tratti di un commesso che non le presta abbastanza attenzione, di un vicino che veste il suo bambino in un modo che trova sgradevole (“Un bambino ha bisogno delle tasche per cosa?!”), o il marito atterrito e il figlio timido e introverso. È Pansy contro il mondo, e quest’ultimo non ha nessuna possibilità. In mani meno esperte, un personaggio del genere sarebbe stato semplicemente un esempio di rabbia proattiva. Ma Marianne Jean-Baptiste – il cui precedente lavoro con lo sceneggiatore e regista britannico in Segreti e bugie del 1996 le è valso una nomination all’Oscar – non è mai stata una che si è fermata alla superficie. Quello che motiva questa donna a colpire è la paura, e probabilmente gli effetti persistenti del trauma intergenerazionale – e questa è la stele di Rosetta a cui Jean-Baptiste continua a tornare, anche quando Pansy si sfoga in modo esilarante o fallisce tragicamente nel combattere la depressione. Non c’è alcun giudizio nella sua performance, nessuna pietà o moralismo, nessuna distanza da questa donna che non può fare a meno di auto-sabotare ogni possibilità di felicità, o addirittura di sentirsi degna di esserlo. C’è semplicemente la presentazione di questa persona che si scaglia contro tutto e tutti intorno a lei fino allo sfinimento, con Jean-Baptiste che permette di vedere l’umanità ferita che pulsa sotto. Merita ogni superlativo a cui siete in grado di pensare, e altro ancora.
Demi Moore
The Substance
Dimenticate, per un secondo, il magistrale meta-colpaccio di scegliere Demi Moore per impersonare qualcuno che Hollywood una volta aveva messo su un piedistallo e poi ha allontanato fino alla disillusione. La potente combinazione di rabbia, ricerca di giustizia e risentimento che la star di Soldato Jane porta nell’incredibile satira sui corpi nello showbiz by Coralie Fargeat la fa sembrare a volte un esorcismo, certo. Ma anche quando interpreta cose così assurde come questa storia su una versione più giovane e più hot di sé stessa che emerge dalla sua schiena, Moore si assicura di aggiungere un volto umano all’orrore fisico. È una performance divertente, spaventosamente intensa, soprattutto quando la sua celebrità prematuramente mandata in pensione inizia a sabotare la sua controparte dalla pelle di rugiada (meravigliosa anche Margaret Qualley). E grazie alla sua star, il momento più agghiacciante in questa interpretazione esagerata delle ossessioni giovanilistiche della società è anche il più triste: Moore si fissa allo specchio, togliendosi violentemente il trucco mentre abbandona i piani per un appuntamento galante. E fa sembrare il disprezzo di sé la cosa più spaventosa del mondo.
Josh O’Connor
La chimera/Challengers
Questo è stato l’anno in cui l’attore 34enne from Cheltenham è passato dall’essere un talento di nuova generazione in grado di rubare scene e far battere cuori all’attore che può reggere sulle spalle interi drammi basati su singoli personaggi e aggiungere ulteriori scintille a progetti corali con i migliori. Presentato in anteprima a Cannes lo scorso anno, La chimera suggeriva che, nel suo abito bianco sporco e con la barba incolta di tre giorni, O’Connor potrebbe essere l’erede del tipo di antieroi volubili e carismatici che Al Pacino interpretava nei primi anni ’70: il suo tombarolo italiano è allo stesso tempo magnetico e ripugnante. Poi è arrivato Challengers, il triangolo tennistico e amoroso di Luca Guadagnino, e ci ha regalato un mascalzone scanzonato con un destino completamente diverso: un truffatore di tornei che avrebbe potuto essere davvero un contendente, se solo non si fosse innamorato sia di Zendaya che del suo partner di doppio, Mike Faist (non è esattamente il sottotesto?). È la doppietta che gli attori sognano, e il fatto che entrambi i film siano arrivati nei cinema americani così vicini non ha fatto altro che dimostrare che O’Connor è davvero il ragazzo da tenere d’occhio. Che vogliate baciarlo o dargli un pugno in faccia (forse entrambi?), è impossibile distogliere lo sguardo da lui quando è sullo schermo.
Denzel Washington
Il gladiatore II
Anche se non avete visto il sequel by Ridley Scott del suo film premio Oscar del 2000, probabilmente avete sentito dire che Denzel Washington ruba la scena nel momento in cui appare nel film e poi se la tiene comodamente nella tasca del caftano per il resto del tempo. L’hype è giustificato. Il suo personaggio, un ex schiavo diventato un potente mediatore di nome Macrino, conclude un patto faustiano con il prigioniero di guerra Paul Mescal: combatti nell’arena per me e avrai la possibilità di vendicare la morte di una persona cara. Nelle mani di Washington, però, Macrino diventa rapidamente una sorta di nemico-amico di questo combattente che è allo stesso tempo un astuto cospiratore e una mina vagante. Non avete davvero idea di cosa farà il suo ambizioso trafficante, e prima di farlo sfila per le camere del Senato di Roma con in mano una testa decapitata. È il tipo di approccio totale a un cattivo che combina lo scaltro poliziotto di Washington in Training Day e il suo criminale freddo e calcolatore in American Gangster, per poi completare il tutto con una generosa dose di camp. Caligola non ha niente da ridire.
Kōji Yakusho
Perfect Days
I fan del cinema giapponese elogiano da decenni la grandezza di Kōji Yakusho, e la sua galleria di impiegati danzanti, detective tormentati, samurai macchiati di sangue e yakuza amanti dei noodle (solo la punta dell’iceberg nei suoi 45 anni sullo schermo) lo ha da tempo attestato come un attore che ha una gamma incredibile e può adattare qualsiasi ruolo ai suoi punti di forza. Anche i suoi irriducibili ammiratori però sono rimasti sorpresi da quello che ha portato al film di Wim Wenders su un custode di bagni pubblici di nome Hirayama. A prima vista, non c’è niente di speciale in questo modesto gentiluomo di mezza età: si sveglia, va al lavoro, colleziona cassette di rock classico ed è orgoglioso quando il suo lavoro è ben fatto. Ma Yakusho ti fa vedere come la routine nasconda le increspature delle emozioni sotto una superficie apparentemente placida. È una performance squisitamente calibrata, sublime per come trasforma la routine quotidiana in qualcosa di entusiasmante e profonda nel modo in cui eleva piccoli momenti in epifanie. Senza di lui, sarebbe comunque il miglior film mai realizzato su un pulitore di WC. Con lui, questa piccola storia senza pretese si trasforma in una sorta di sconvolgente character study che ci ricorda perché andiamo al cinema.