Chi, negli ultimi anni, è stato in un multiplex sa bene che la maggior parte dei film programmati non è un granché. Ci sono anche delle eccezioni non indifferenti come Oppenheimer e Barbie, ma prodotti come Ant-Man and the Wasp: Quantumania, Fast X e Shark 2 – L’abisso sono molto più comuni (per citare solo una manciata di titoli degli ultimi mesi). Allargando lo sguardo all’intera storia di Hollywood, ci si rende conto del fatto che per ogni Quarto potere e Casablanca ci sono 500 disastri come Howard il papero, Love Guru e Battaglia per la Terra.
L’unica cosa che tutti i pessimi film hanno in comune è che, da qualche parte lungo la lavorazione, qualcuno ha preso almeno una decisione tragicamente sbagliata. Dato che la storia di Hollywood è lunga oltre un secolo, abbiamo dovuto prendere anche noi una serie di decisioni difficili. Non volevamo riempire la lista di brutti sequel, visto che in questo campo c’è solo l’imbarazzo della scelta (davvero avevamo bisogno di quattro film di Terminator, dopo che James Cameron ha abbandonato il franchise?). Non volevamo nemmeno concentrarci troppo su scelte di casting sbagliate o su esempi di razzismo conclamato e scandaloso, perché anche quelli avrebbero occupato tutto lo spazio.
Molti dei titoli selezionati sono la diretta conseguenza di scelte pessime operate a livello aziendale: del resto si sa che a Tinseltown bazzicano dirigenti sprovveduti fin dai tempi di Buster Keaton e Charlie Chaplin. Parliamo di gente che pensava che John Wayne sarebbe stato un ottimo Gengis Khan e che sul set del Grande ruggito, accanto a Melanie Griffith e Tippi Hedren, avrebbero dovuto esserci dei leoni selvaggi non ammaestrati.
Ricordate che la lista potrebbe facilmente comprendere 500 voci. E, se non siete d’accordo con le scelte di questa Top 30, condividete i vostri suggerimenti utilizzando l’hashtag #BadMovieDecisions sul social precedentemente noto come Twitter (se mai faremo una lista delle peggiori decisioni nella storia di Internet, Elon Musk che ribattezza Twitter sarà sicuramente nelle prime posizioni).
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Probabilmente chi l’ha vissuto resterà sorpreso, ma oggi il 1999 è considerato dai cinefili come una delle più grandi annate della storia di Hollywood. È l’anno che ci ha regalato Fight Club, Magnolia, Matrix, Election, Impiegati… male!, South Park – Il film: più grosso, più lungo & tutto intero, The Blair Witch Project, Boys Don’t Cry, The Sixth Sense – Il sesto senso, Il giardino delle vergini suicide, Galaxy Quest, Essere John Malkovich, Il talento di Mr. Ripley e troppi altri classici per elencarli tutti (si veda il libro di Brian Raftery Best. Movie. Year. Ever.: How 1999 Blew Up the Big Screen, per saperne di più). Però gli Academy Award, quando hanno assegnato il premio per il miglior film dell’anno, hanno scelto American Beauty. All’epoca sembrava un’opera cinematografica molto profonda, ma provate a guardarlo di nuovo: alla fine tutto si risolve in Kevin Spacey che cerca disperatamente di fare sesso con la migliore amica della figlia adolescente. Dovremmo anche pensare che ci sia un significato profondo dietro un sacchetto di plastica che svolazza portato dal vento, e c’è tutta una sottotrama incentrata sul gay panic e legata al “cattivo” della porta accanto. È difficile guardarne più di cinque minuti a caso senza rabbrividire. Dare a questa pellicola il premio per il miglior film di un’intera annata oggi sembra una pazzia, ma ancora di più se si considerano le altre opzioni a disposizione.
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Se chiedete a un giovane cinefilo di indicare il peggior film Marvel, probabilmente si orienterà su Iron Man 2, Thor: The Dark World, Ant-Man and the Wasp: Quantumania oppure Eternals. Chi ha la memoria un po’ più lunga forse sceglierà Spider-Man 3, Blade: Trinity o Elektra. Ma i conoscitori più ferrati non esiteranno un istante: chiuderanno il dibattito all’istante tirando fuori Howard il papero. Il film del 1986, prodotto da George Lucas, è incentrato su un alieno proveniente da Duckworld che va a Cleveland. Fa amicizia con una giovane Lea Thompson, fa quasi sesso con lei in uno dei momenti più inquietanti della storia del cinema e combatte il Signore Oscuro dell’Universo. Dovrebbe essere una commedia, ma le risate non arrivano mai. C’è anche il piccolo problema che il personaggio di Howard il papero è molto più inquietante di quanto i registi avessero in mente: è una specie di bestia infernale senza espressione che finisce per tormentare i vostri sogni. Il film è stato un vero e proprio buco nell’acqua e ha dimostrato che Lucas non è infallibile. Ci sono voluti altri 22 anni prima che arrivasse Iron Man e mostrasse all’industria come fare le cose in stile Marvel per bene.
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Il 18 luglio 2019 è apparso online il primo trailer di Cats e nel giro di pochi secondi ha catturato l’attenzione di tutti gli utenti Twitter. Le domande erano molte: com’è possibile che la “pelliccia digitale” applicata a tutti gli attori in computer graphic faccia così schifo? Perché i personaggi femminili hanno seni simili a quelli umani, ma senza capezzoli? E dove sono i genitali? Perché le code sembrano uscire dalla parte sbagliata del corpo? Perché mi sento come se fossi appena finito in qualche angolo atroce dell’inferno? Alla fine è saltato fuori che molte di queste domande se le poneva anche il team creativo del film: la “pelliccia digitale” è stata un incubo da creare e non hanno avuto il tempo di farla bene. Hanno lavorato come pazzi fino alla data della prima e hanno persino apportato delle migliorie dopo l’uscita del film nelle sale, cosa quasi senza precedenti nella storia del cinema. Ci sono moltissimi altri problemi in Cats (è per questo che ha una valutazione del 19% su Rotten Tomatoes), ma il film era talmente brutto e inquietante da rendere difficile concentrarsi su questi aspetti.
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Immagina di essere Michael Oher. Hai guadagnato milioni di dollari giocando per otto stagioni nella NFL. Quasi tutti quelli che incontri conoscono la storia incredibile della tua vita, in particolare la parte in cui, da adolescente, sei stato adottato dalla ricca famiglia Tuohy e hai frequentato una scuola privata di lusso che ti ha aiutato a ottenere un posto all’Università del Mississippi. Sembra fantastico. Adesso immagina che abbiano fatto un film sulla tua vita che ti dipinge come un sempliciotto alla Forrest Gump, con poteri al limite del magico, che non sapeva nemmeno giocare a football finché non gliel’hanno insegnato Sandra Bullock e un bambino che spostava bottiglie di ketchup su un tavolo. Immagina che il film abbia incassato 300 milioni di dollari e sia passato in tv di continuo. Immagina che tutti credano che il film racconti la storia vera della tua vita. Impazziresti, no? «La gente mi guarda e mi sminuisce per colpa di un film», ha detto Oher nel 2015. «Non vedono quello di cui sono capace e il tipo di giocatore che sono. Ecco perché vengo così sottovalutato: è per via di qualcosa che non c’entra col campo di gioco». Alla fine Oher ha anche intentato una causa contro i Tuohy, sostenendo che gli hanno ingiustamente negato i profitti del film e hanno mentito sulla sua adozione (loro rigettano decisamente le accuse). A prescindere da chi abbia ragione e chi torto, non c’è dubbio che The Blind Side abbia causato a Oher molto dolore. Era davvero così difficile raccontare la sua vita in modo veritiero?
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L’epopea biblica di Mel Gibson, La Passione di Cristo, è stata uno dei film più importanti del 2004, totalizzando 612 milioni di dollari d’incasso in tutto il mondo. Il film è incentrato sugli ultimi giorni di vita di Gesù e culmina nella scena brutale della crocifissione. Prima ancora che uscisse, le organizzazioni ebraiche temevano che avrebbe veicolato il messaggio che gli ebrei fossero responsabili della morte di Cristo. «La Passione di Cristo continua a rappresentare in modo inequivocabile gli ebrei come colpevoli della morte di Gesù», ha scritto l’ADL in un comunicato. «Secondo questo film non c’è alcun dubbio su chi sia il responsabile. In ogni singola occasione, il film del signor Gibson rafforza l’idea che le autorità ebraiche e la folla ebraica siano i diretti responsabili della crocifissione. Non sappiamo cosa ci sia nel cuore [di Mel Gibson]. Sappiamo solo cosa ha ritratto sullo schermo». Due anni dopo, il mondo ha saputo esattamente cosa Gibson pensasse degli ebrei quando è stato arrestato per guida in stato di ebbrezza. «Ebrei del cazzo», ha detto all’agente che l’ha arrestato. «Gli ebrei sono responsabili di tutte le guerre del mondo». Se c’era qualche dubbio sul fatto che Gibson nutrisse o meno sentimenti antisemiti nel profondo del suo cuore, è svanito in quel momento.
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Il primo Alien ha lanciato Ridley Scott rendendolo una vera potenza a Hollywood, oltre ad aprire la strada a Blade Runner e a tutto quello che avrebbe fatto in seguito. Per Aliens – Scontro finale le redini del franchise sono poi state affidate a James Cameron, che aveva dimostrato di essere capace di gestire un film dal budget ipertrofico con Terminator. Per Alien³, nel 1992, il comando delle operazioni è stato invece affidato al regista David Fincher: aveva trascorso gli anni ’80 girando video musicali per Madonna, Sting, Paula Abdul e altre superstar, e si pensava che fosse finalmente pronto per un film. Ma il progetto è andato incontro a grossi problemi di sceneggiatura fin dall’inizio, passando attraverso varie incarnazioni in pre-produzione. Lo Studio, poi, ha iniziato a temere che il regista, non ancora collaudato, non fosse in grado di tenere le redini del progetto: non ha gradito la sua prima versione, insistendo per rigirare alcune riprese, e alla fine ha commissionato un nuovo montaggio, escludendolo senza interpellarlo. Il film comunque è stato una gran delusione. Fincher lo considera uno dei momenti peggiori della sua carriera, e ha dichiarato che l’ha quasi spinto ad abbandonare completamente il mondo del cinema. Per fortuna non l’ha fatto e ci ha regalato Seven, Fight Club, The Social Network, L’amore bugiardo – Gone Girl e molti altri capolavori. In altre parole, quell’uomo sa come si fa un film, e chissà cosa sarebbe accaduto se gli avessero lasciato realizzare la sua versione di Alien³ senza interferire.
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Il 31 dicembre 2006, il New York Times ha pubblicato un articolo intitolato Mike Myers: l’uomo del mistero intenzionale. Lui non è stato intervistato per il pezzo, che comunque lo descrive come un genio misterioso con la tendenza a ritirarsi a vita privata per lunghi periodi, per poi riemergere con nuovi franchise di successo come Fusi di testa, Austin Powers o Shrek. I due giornalisti autori dell’articolo fanno notare che il suo nuovo film sarebbe stato incentrato su un “guru dell’amore” indiano. «Nel 2005, il personaggio ha debuttato in alcuni piccoli teatri del Greenwich Village, allo stesso modo in cui Austin Powers era stato affinato nei locali notturni di Los Angeles», scrive il Times. «Irriconoscibile con il trucco, una parrucca bianca e la barba lunga e fluente di uno yogi, il signor Myers, che si faceva chiamare Pitka, dispensava al pubblico dei consigli assurdi, con un accento indiano marcatissimo». In altre parole, Myers aveva avuto un’idea davvero terribile per un nuovo personaggio che l’avrebbe visto travestirsi da indiano. Almeno ha avuto il buonsenso di non pitturarsi il viso di marrone, ma questa è l’unica nota positiva di Love Guru (2008), film a cui hanno partecipato, come coprotagonisti, Justin Timberlake e Jessica Alba. È una pellicola penosamente priva di comicità che ha creato un danno enorme alla carriera di Myers: sembrerà assurdo, ma questa è stata l’ultima volta in cui è stato protagonista in un film. Negli ultimi 15 anni, a livello cinematografico, ha lavorato solo nell’animazione, nei documentari e recitando in ruoli secondari. Si è accennato a un Austin Powers 4 e persino di un Fusi di testa 3 (o almeno è ciò che i fan sperano), ma nessuno parla di Love Guru 2. Perché non sarebbe nemmeno dovuto esistere un Love Guru 1.
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In un mondo migliore, Orson Welles avrebbe dovuto godere della libertà di fare tutti i film che voleva per il resto della sua vita, dopo Quarto potere. Aveva appena 24 anni, quello era il suo primo lavoro eppure è indiscutibilmente una delle più grandi pellicole di tutti i tempi, se non la più grande in assoluto. Ma in questo nostro universo, il film è stato un flop, facendo anche arrabbiare alcune persone potentissime. Era anche il periodo in cui gli Studios, e non i registi, erano le forze trainanti di Hollywood: i registi erano visti come ingranaggi della macchina del cinema facilmente rimpiazzabili. Così, quando Welles ha girato l’adattamento del romanzo di Booth Tarkington del 1918 su una famiglia benestante all’inizio del secolo, non gli è stato concesso di occuparsi del montaggio finale. Ai produttori non è piaciuta la sua versione del film, per cui l’hanno semplicemente estromesso e hanno massacrato il suo lavoro a colpi d’accetta. Hanno tagliato quasi un’ora e hanno aggiunto un lieto fine, oltre a perdere un sacco di girato. Negli ultimi anni sono stati effettuati dei nuovi montaggi seguendo gli appunti originali di Welles, e si è persino tentato di ricostruire quanto è stato perduto, ma è impossibile ricreare ciò che avrebbe potuto essere: è andato per sempre. Purtroppo questa non è stata l’ultima volta che Welles si è trovato ad affrontare simili problemi, nella sua carriera.
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Adattare per il grande schermo La buona terra, il libro di Pearl S. Buck del 1931, era una buona idea. Il romanzo parla di una famiglia cinese che vive in un piccolo villaggio della provincia di Anhui ed è stato un grande bestseller all’inizio del periodo della Grande Depressione. Ha insegnato molto agli americani sulla vita quotidiana nella Cina rurale e parecchi storici sostengono che li abbia aiutati a simpatizzare per la Cina contro il Giappone, all’inizio della Seconda guerra mondiale. L’errore commesso nell’adattamento cinematografico (e questo è un nodo fondamentale) è stato quello di avere affidato tutti i ruoli principali ad attori bianchi americani truccati da cinesi: peggio non si poteva fare. Negli anni seguenti, la produzione ha tentato di giustificarsi dicendo che avrebbe voluto usare degli attori cinesi, ma gli americani «non erano pronti» per un film del genere. Ha anche provato a dare la colpa al Codice Hays, che imponeva di non avere personaggi legati da relazioni di etnia mista. Qualunque sia la verità, è giunto il tempo di un remake con un vero cast cinese.
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In chiusura degli Academy Award 2017, Warren Beatty e Faye Dunaway sono saliti sul palco per consegnare il premio per il miglior film. Beatty ha estratto il nome del presunto vincitore da una busta rossa, l’ha guardato un po’ stupito, ha sbirciato di nuovo per vedere se ci fosse altro che gli era sfuggito, e poi ha iniziato a parlare in modo molto stentato: «E il premio Oscar… per il miglior film….». Si è fermato, incerto su come proseguire, visto che stava fissando un foglietto con scritto che Emma Stone vinceva come miglior attrice per La La Land. A quel punto, una Dunaway nervosa ha dato un’occhiata al foglio e ha detto La La Land al microfono. I due minuti e mezzo successivi sono stati un caos assoluto, sopra e sotto il palco, poiché i rappresentanti della PricewaterhouseCoopers, incaricati di distribuire le buste e di assicurarsi che venissero letti i nomi giusti, sono rimasti completamente di sasso. Il direttore di scena Gary Natoli ha preso in mano la situazione salendo sul palco e dicendo ai produttori di La La Land che a vincere era stato Moonlight: a Beatty e Dunaway era stata consegnata la busta sbagliata. Questa è stata la prima edizione degli Academy Award dopo la vittoria di Donald Trump, e l’accaduto ha amplificato la sensazione che il mondo stesse andando a rotoli e che niente funzionasse più come avrebbe dovuto.
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La storia degli Studios che compromettono le creazioni di registi ambiziosi e tagliano i loro film è vecchia quasi quanto Hollywood: Orson Welles, dicevamo, ha dovuto affrontare queste angherie per gran parte della sua carriera. La triste realtà è che gli Studios, di solito, hanno l’ultima parola sul montaggio finale dei loro film e i registi lavorano per loro. L’esempio più eclatante di massacro operato dagli Studios nella storia di Hollywood si è verificato nel 1984, quando l’epopea criminale di Sergio Leone C’era una volta in America con Robert De Niro, Joe Pesci, James Woods ed Elizabeth McGovern è stata ridotta da 4 ore e 29 minuti a 2 ore e 19 minuti. Hanno anche riordinato le scene in modo da rendere il film inguardabile. «Le relazioni vengono troncate, le scene sono private della loro vita, e sfido chiunque a capire la trama della versione breve», ha scritto Roger Ebert. «L’originale di C’era una volta in America merita una valutazione di quattro stelle. La versione breve è una barzelletta». Nel corso degli anni sono stati fatti molti tentativi di riportare C’era una volta in America alla sua forma originale, ma la maggior parte degli americani ha visto solo la versione tagliata. È un disastro, perché questo film merita di essere ricordato alla stregua del Padrino e Quei bravi ragazzi. Se nell’84 lo Studio si fosse fidato di Leone e avesse dato il via libera alla sua versione del film, la storia si sarebbe svolta in modo molto diverso.
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Le commedie di Whoopi Goldberg, i film d’azione con le strane coppie di poliziotti e quelli di fantascienza sui dinosauri hanno fatto guadagnare un sacco di soldi negli anni ’90. Ma se si mischiano Sister Act, Bad Boys e Jurassic Park, il risultato è quell’orrore mostruoso di T-Rex – Il mio amico Dino (in originale Theodore Rex). Se non conoscete questo bizzarro pezzo di storia della celluloide datato 1996, il film si svolge in un futuro strampalato in cui agenti di polizia e dinosauri antropomorfi con le scarpe da tennis collaborano per indagare sui crimini. Se vi sembra un’idea stupida per un film, avete ragione. La stessa Goldberg se n’è resa conto dopo aver accettato di partecipare e ha cercato di svicolare, cosa che ha innescato una causa legale con tanto di indennizzo finale di 7 milioni di dollari. Ma lei praticamente ha girato il film con una pistola puntata alla tempia e lo si vede in ogni singolo fotogramma. Il budget, alla fine, è lievitato fino a 33 milioni di dollari, anche se T-Rex è soltanto un uomo con addosso un costume di gomma da quattro soldi che sembra uscito direttamente dal set della serie tv I dinosauri. Alla fine lo Studio si è reso conto di aver commesso un terribile errore e ha distribuito la pellicola direttamente sul mercato home video: per l’epoca è stato il film “straight-to-DVD” più costoso della storia di Hollywood. A distanza di anni, Theodore Rex è diventato il modo di dire hollywoodiano per indicare «un’idea stupidissima, ma davvero tanto».
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Nei primi anni di Hollywood, le storie che parlavano di criminali impenitenti, coppie fedifraghe e tossicodipendenza erano comuni. Ma col superamento del cinema muto e la diffusione in tutta la nazione delle sale cinematografiche, le richieste di censura da parte del governo hanno iniziato a farsi sempre più pressanti (era un’epoca piuttosto puritana in cui l’alcol era proibito in tutti gli Stati Uniti). Prima che il governo avesse la possibilità di approvare leggi ad hoc per la censura dei film, gli Studios hanno deciso di agire per conto proprio varando il Codice Hays, un documento che limitava moltissimo ciò che i registi potevano mostrare sullo schermo. Quando, nel 1935, il Codice ha preso ad essere applicato con rigore, i film sono cambiati in modo significativo: chiunque avesse commesso un “atto immorale” doveva necessariamente essere punito prima della fine della storia. Non poteva esserci alcun accenno al sesso, neppure tra personaggi felicemente sposati. Non era assolutamente consentito prendere in giro la fede cristiana e non si potevano mostrare coppie di “razza mista” oppure omosessuali. E l’elenco è molto lungo. I registi più abili hanno escogitato modi raffinati per aggirare le regole, ma comunque tutto questo ha costretto a scendere a compromessi creativi enormi, in quasi tutti i film. Il Codice è stato dismesso solo nel 1968, quando è entrato in vigore un sistema di classificazione che ha posto fine alla necessità di un’autocensura tanto rigida.
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Alcuni fra i migliori film della storia di Hollywood sono dei remake. Lo è anche Il mago di Oz del 1939, che è stato il terzo tentativo di adattare sul grande schermo il libro di L. Frank Baum. Ma se si vuole girare un film che è già stato fatto, bisogna assicurarsi di raccontare la storia in modo nuovo e interessante. E se esiste già una versione perfetta del film, allora bisogna avere un motivo davvero convincente per tornarci su. Gus Van Sant non ha seguito nessuna di queste regole non scritte, nel 1998, quando ha deciso di girare un remake “inquadratura per inquadratura” di Psycho di Alfred Hitchcock con Vince Vaughn, Julianne Moore e Viggo Mortensen, come esperimento cinematografico che in realtà nessuno aveva chiesto di vedere. È successo subito dopo Will Hunting – Genio ribelle, ossia quando Van Sant avrebbe potuto ottenere il via libera per fare qualsiasi film volesse: ciò rende ancora più sconcertante la sua decisione di clonare Psycho. Non è possibile migliorare l’originale, e crearne una copia carbone virtuale non fa altro che dare adito a paragoni poco lusinghieri. «Questo film è un esperimento preziosissimo nel campo della teoria del cinema», ha scritto Roger Ebert in una recensione brutale da una stella e mezza, «perché dimostra l’inutilità di un remake inquadratura per inquadratura. Il genio, evidentemente, alberga tra o sotto le inquadrature, o in un’alchimia che non può essere misurata oppure contata». Insomma, cosa diavolo avevano in mente quando hanno deciso che questa era una buona idea?
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È facile dimenticare che, fin dal principio, Star Wars era pensato per i bambini. Nella trilogia originale c’erano R2-D2, C3-PO, gli ewok e tanti altri personaggi concepiti per deliziare i giovanissimi e diventare poi giocattoli bellissimi. Quando George Lucas, alla fine degli anni ’90, è tornato all’universo di Star Wars per La minaccia fantasma, si è sentito in obbligo di creare un altro personaggio a cui i bambini potessero affezionarsi. Sfortunatamente, ha scelto un gungan scialbo e spendaccione che si chiamava Jar Jar Binks, parlava in inglese stentato ed evocava in modo imbarazzante l’immagine più rozza e stereotipata di un giamaicano. La Lucasfilm era convinta che Jar Jar sarebbe stato il personaggio di punta del film e ha creato montagne di merchandising dedicato a lui. È finito anche sulla copertina di Rolling Stone. Ma Jar Jar alla critica non piaceva molto, ai bambini neppure e i fanatici di Star Wars non lo gradivano affatto. È stata persino assemblata una versione completamente nuova del film in cui tutti i suoi dialoghi sono stati sostituiti e doppiati con le parole di un vecchio saggio. Poi Lucas ha capito l’antifona e in pratica ha cancellato il personaggio dai sequel, ma il danno ormai era fatto. Jar Jar Binks così è diventato il simbolo di tutto ciò che non funziona nei prequel (a dire il vero, quei tre prequel sono piuttosto belli, se confrontati con l’ultima raffica di sequel).
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Judy Garland aveva appena 16 anni quando ha firmato un contratto per interpretare Dorothy Gale nel Mago di Oz. Ma, anche se era così giovane, sapeva bene quali erano le aspettative brutali di Hollywood, soprattutto a proposito del rimanere magrissima e lavorare 18 ore al giorno. Per far fronte a tutto ciò, la produzione le somministrava un cocktail tossico di barbiturici e anfetamine pensato per svegliarla al mattino, farla addormentare la sera e farle perdere il peso in eccesso. Non c’è voluto molto perché ne diventasse dipendente. Ai dirigenti della MGM non ne poteva fregare di meno: volevano solo che la loro star continuasse a lavorare. Ma quelle pillole hanno presentato un conto salatissimo al suo corpo: quando è morta aveva solo 47 anni, ma ne dimostrava 20 in più. La tragedia avrebbe potuto essere evitata se il sistema degli Studios hollywoodiani degli anni ’30 e ’40 si fosse preoccupato anche solo un pochino della salute delle proprie star.
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Dopo che Steven Spielberg, nell’arco di soli sei anni, ha girato Lo squalo, Incontri ravvicinati del terzo tipo e I predatori dell’arca perduta, la maggior parte dei dirigenti degli Studios sarebbe stata ben felice di lasciargli fare qualunque cosa lui volesse, per il suo progetto successivo. Eppure, quando si è rivolto all’amministratore delegato della Columbia Pictures, Frank Price, presentando l’idea di E.T. l’extra-terrestre, Price ha passato la mano pensando che la storia di un alieno gentile che fa amicizia con un ragazzino sarebbe piaciuta solo ai più piccoli. La Columbia ha venduto poi la sceneggiatura alla MCA per un milione di dollari e il 5% dei profitti. Il film, naturalmente, è stato un successo colossale, incassando quasi 800 milioni di dollari. Qualche anno dopo, lo Studio ha avuto remore simili su Ritorno al futuro e ha lasciato perdere anche quello. Il filotto di idiozie è andato avanti fino all’inizio degli anni ’90, quando la Columbia ha rifiutato Pulp Fiction, ma nel frattempo Price aveva già lasciato l’azienda per un nuovo ruolo in Universal. Sapete qual è stato uno dei suoi primi progetti importanti? Howard il papero.
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Valutare i prodotti della cultura pop del passato paragonandoli al presente a volte può essere ingiusto. Gli standard, col tempo, cambiano, e alcune battute che una volta passavano senza suscitare polemiche ora sono considerate gravemente offensive. Questo non significa che le persone che le hanno scritte e pronunciate fossero cattive: erano solo cresciute in un’altra epoca. Però siamo disposti ad abbracciare questa logica solo fino a un certo punto, perché alcune cose sono così offensive che dire “ma erano altri tempi!” non costituisce una scusante valida. Un esempio perfetto di tutto ciò è l’interpretazione di Mickey Rooney nel ruolo del fotografo-possidente giapponese I.Y. Yunioshi in Colazione da Tiffany. L’idea di Rooney nei panni di un personaggio asiatico era già abbastanza terribile, ma lui portava anche un trucco per il viso, una protesi per la bocca e parlava un inglese stentato con un accento pesantissimo e farsesco: sarebbe impossibile immaginare uno stereotipo più odioso e rozzo di così. È talmente offensivo da rovinare un film altrimenti meraviglioso. Inoltre era il 1961, non il 1931: avrebbero dovuto rendersene conto, e anche la stampa dell’epoca lo ha sottolineato. «Mickey Rooney dà il suo consueto contributo nel ruolo di un fotografo giapponese», scrisse The Hollywood Reporter, «ma il suo personaggio è una macchietta e offenderà molte persone». Per usare un eufemismo.
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Come dimostrato da Mel Brooks con Per favore, non toccate le vecchiette nel 1967, non c’è nulla di male nel fare un film divertente su Hitler e i nazisti. Roberto Benigni nel 1997 ha mostrato che è persino possibile fare una commedia sull’Olocausto con La vita è bella, una pellicola che ha vinto tre Oscar, tra cui quello per il miglior attore. Ma per farlo ci vuole un tocco molto delicato e il tono giusto. Jerry Lewis, l’uomo dietro a Pazzi, pupe e pillole, Le folli notti del dottor Jerryll e Boeing Boeing, non era la persona più adatta per una cosa simile. Ci ha provato nel 1972 con The Day the Clown Died, dove interpreta un clown tedesco che finisce per accompagnare i bambini ebrei nelle camere a gas di Auschwitz: il film non è mai uscito perché la sceneggiatrice Joan O’Brien non ha approvato il prodotto finale. La pellicola è diventata subito leggendaria, bollata come la peggiore idea per un film nella storia di Hollywood. Alcuni spezzoni sono emersi, nel corso dei decenni, ma pare che non esista nemmeno un negativo completo in tutto il mondo. E probabilmente è meglio così.
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All’inizio del nuovo millennio, John Travolta era uno degli attori più importanti di Hollywood. Nessuno l’avrebbe mai detto nel 1993, quando nelle sale è uscito Senti chi parla adesso! (il film in cui i cani parlano), ma subito dopo ha girato un filmetto intitolato Pulp Fiction. Poi ha fatto Get Shorty, Michael, Face/Off, A Civil Action, Phenomenon, I colori della vittoria e altre grandi pellicole in rapida sequenza. Questo gli ha permesso di realizzare il suo sogno: trasformare in un film il romanzo di L. Ron Hubbard del 1982, Battaglia per la Terra. Era chiaramente un tentativo di diffondere il verbo di Scientology nei multisala nazionali, anche se il team di Travolta lo negava ogni volta che l’argomento veniva toccato. «Non ho mai avuto a che fare o parlato con la Chiesa di Scientology», affermava il manager di Travolta. «È una storia d’azione, d’avventura e di fantascienza. Punto. Il film non ha nulla a che fare con Scientology». Ovviamente era una stronzata colossale. Tutto questo avrebbe potuto essere, in qualche maniera, scusabile se Battaglia per la Terra fosse almeno stato un buon film, un film decente, o anche solo un film medio. Ma è terribile. Ogni secondo di girato è un’agonia: è difficile immaginare che anche una sola persona si sia convertita a Scientology grazie a questa visione, anche perché erano tutti troppo impegnati ad addormentarsi o a ridere davanti a Travolta coi dreadlock. Battaglia per la Terra ha vinto otto Golden Raspberry Award e il premio come peggior film del decennio, nel 2010. Se la Terra resisterà abbastanza a lungo da permettere ai Golden Raspberry Award di assegnare il titolo di “peggior film del secolo” alla cerimonia del 2100, probabilmente vincerà anche quello.
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Non è difficile capire perché il team dietro Il grande ruggito (1981) abbia pensato di dover utilizzare veri leoni sul set: la trama del film di Noel Marshall con Tippi Hedren e Melanie Griffith ruota attorno a una famiglia americana che si trasferisce in una riserva naturale in Tanzania per studiare i leoni, ma eravamo anni prima della computer graphic. Mettere dei costumi da leoni addosso a delle persone era fuori discussione: sarebbero sembrati finti come quelli del Pianeta delle scimmie. A essere incomprensibile, invece, è perché abbiano pensato che usare dei veri leoni selvatici, piuttosto che degli esemplari addomesticati, potesse avere anche solo un barlume di senso, e perché lo Studio e la sua compagnia assicurativa abbiano approvato questo piano folle. Marshall è stato morso da un leone e ha rischiato di perdere un braccio. Griffith è rimasta quasi scotennata e l’hanno ricucita con 50 punti di sutura. Quasi tutti i membri del cast e della troupe sono stati attaccati e i racconti dal set sembrano tratti da un horror, ma comunque si è deciso di andare avanti. La ciliegina sulla torta è che il film è stato un fiasco enorme al botteghino. Poche persone, oggi, hanno sentito parlare del Grande ruggito, ma i pochi sfortunati che hanno lavorato su quel set non lo dimenticheranno mai.
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Nel 1947, 33 anni prima di diventare presidente e quando ancora si considerava un democratico, Ronald Reagan ha testimoniato davanti alla Commissione per le Attività Antiamericane della Camera. All’epoca lui era presidente della Screen Actors Guild e si indagava per sapere se nell’organizzazione si fossero infiltrati dei comunisti. «C’è stato un gruppetto, all’interno della Screen Actors Guild, che si è regolarmente opposto alla politica del consiglio e dei funzionari, come dimostrato dal voto su varie questioni», ha detto Reagan. «Questa piccola cricca è sospettata di seguire più o meno le idee che associamo al Partito Comunista… ho sentito diverse discussioni e alcuni di loro sono stati definiti comunisti». Alla Commissione non serviva altro: così è iniziato un orribile capitolo della storia di Hollywood in cui il governo dava la caccia ai sospetti comunisti e chiunque fosse etichettato come tale non avrebbe lavorato per tutto il decennio successivo. Ciò ha causato danni enormi alle carriere di molte brave persone, tra cui Charlie Chaplin, Langston Hughes, Dalton Trumbo e Lena Horne.
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L’originale Mamma, ho perso l’aereo ha incassato quasi 500 milioni di dollari a fronte di un budget di soli 18 milioni. È diventato uno classico natalizio amato da generazioni di bambini, e ha dato il via a un franchise che continua ancora oggi. Quando ha accettato di fare il film, nel 1990, la 20th Century Fox poteva solo sognare un risultato simile. Ma ogni singolo centesimo di quella somma sarebbe potuto andare alla Warner Bros., lo Studio che si era occupato del film durante la fase di produzione. La Warner Bros. però si è tirata indietro quando il regista, Chris Columbus, ha detto di aver bisogno di 17 milioni di dollari per finire il film. Gli hanno risposto che non erano disposti a dargliene più di 14. Non volendo tagliare i ponti, il team, compreso lo sceneggiatore John Hughes, ha trovato il modo di aggirare l’accordo e far sì che la 20th Century Fox desse loro i soldi di cui avevano bisogno. A peggiorare le cose, proprio in quel periodo la Warner Bros. ha dovuto affrontare il flop del Falò delle vanità. «Oggi c’è poco da stare allegri alla Warner Brothers», si legge in un articolo di fine anno del New York Times. «Molti americani hanno evitato di andare a spendere soldi per i regali di Natale dell’ultimo minuto, ma ormai non erano più disposti a impiegare quelle ore recuperate per andare a vedere Il falò delle vanità. [Il film] è costato circa 40 milioni di dollari per la produzione e ancora di più per la promozione, ma ha incassato appena 3,1 milioni nel weekend di apertura». Nel frattempo, Mamma, ho perso l’aereo stava polverizzando tutti i record di incassi. Non è stato un gran Natale, per la Warner Bros.
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La tragedia avvenuta sul set di Ai confini della realtà (1983), che ha causato la morte di Vic Morrow e di due attori bambini, è stata oggetto di molte discussioni e azioni legali negli ultimi quarant’anni. Stando ai fatti appurati, l’incidente si è verificato durante le riprese del segmento Time Out, in cui un uomo torna indietro nel tempo fino alla guerra del Vietnam e deve proteggere due bambini vietnamiti. Il regista John Landis aveva ingaggiato Myca Dinh Le, di 7 anni, e Renee Shin-Yi Chen, di 6, per quei ruoli, anche se non aveva fornito i documenti legali necessari per farli apparire davanti alle cineprese. Durante le riprese di una scena d’azione, un elicottero si è schiantato: le pale hanno decapitato Morrow e Le, mentre Chen è morto schiacciato dai rottami. La sequenza è stata eliminata dal film, e negli anni seguenti sono state intentate diverse cause legali. Anche se nessuno è stato ritenuto penalmente responsabile dell’accaduto, le cause hanno dimostrato che non erano state prese le precauzioni di sicurezza più basilari. «Per nessun film vale la pena morire», ha detto anni dopo Steven Spielberg, il produttore di Ai confini della realtà. «Penso che le persone ora si oppongano molto più che in passato ai produttori e ai registi che chiedono troppo. Se qualcosa non è sicuro, ogni attore o membro della troupe ha il diritto e la responsabilità di urlare: “Cut!”».
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Come Phil Lord e Christopher Miller hanno dimostrato più volte negli ultimi 15 anni, sono in grado di prendere qualsiasi idea venga loro proposta da Hollywood (per quanto apparentemente insensata) e di trasformarla in un’ottima pellicola. Sulla carta, titoli basati sui personaggi dei LEGO o sulla serie televisiva anni ’80 I quattro della scuola di polizia (in originale 21 Jump Street) erano idee orribili e mediocri, ma nelle loro mani sono diventati entrambi film stellari. Quando si è saputo che la Disney avrebbe affidato loro un film di Star Wars incentrato sul giovane Han Solo, i fan hanno esultato, ma i due sono stati licenziati a metà della lavorazione. «Penso che questi ragazzi siano divertentissimi», ha dichiarato Kathleen Kennedy, presidente della Lucasfilm, «ma hanno un background legato all’animazione e alla sketch comedy. Quando si fanno questi film c’è molto spazio per l’improvvisazione, ma deve essere inserita all’interno di un processo altamente strutturato, altrimenti si rischia di non portare a termine il lavoro». Kennedy ha poi ingaggiato Ron Howard per occuparsi del progetto, e il risultato finale non è stato solo un film molto deludente, ma anche il primo di Star Wars a non andare bene al botteghino. Il fiasco ha costretto la Lucasfilm a sospendere tutti gli altri progetti cinematografici legati al franchise e a concentrarsi sulle serie televisive. Non sapremo mai come sarebbe stato il Solo di Lord e Miller, ma sicuramente sarebbe stato molto migliore di quello che abbiamo visto. Quando si assumono delle persone fantastiche, ci si deve sedere e lasciare che facciano il loro lavoro: staccare la spina prima che possano mostrarti un prodotto finito è profondamente ingiusto.
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È molto difficile dispiacersi per Matt Damon: è uno degli attori più importanti degli ultimi vent’anni e nuota nei soldi, grazie al franchise di Bourne e ad altri film di enorme successo. Ma negli anni 2000 ha avuto l’opportunità di aumentare vertiginosamente la sua ricchezza quando James Cameron l’ha contattato per interpretare il ruolo da protagonista in Avatar. Come incentivo gli ha anche offerto il 10% dei ricavi. L’unico problema era che era le date delle riprese erano in conflitto con il suo lavoro su un film di Bourne. «Avrei dovuto abbandonare il set in anticipo, lasciandoli un po’ nei pasticci, e non volevo farlo», ha spiegato. Questa decisione gli è costata 250 milioni di dollari. Damon ne ha parlato più volte, nel corso degli anni, ma Cameron crede che ormai non dovrebbe pensarci più. «Si sta ancora tormentando per quella faccenda», ha detto Cameron nel 2023, «e io penso: “Matt, sei una delle più grandi star mondiali del cinema: fattene una ragione e non pensarci più!”». Voi ce la fareste a levarvi dalla mente 250 milioni di dollari?
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Nonostante tutti i successi nella sua lunga carriera, Will Smith ha sempre faticato a farsi prendere sul serio come attore. Questo perché ha iniziato come rapper, ha recitato per anni in una sitcom (Willy, il principe di Bel-Air) ed è diventato famoso soprattutto grazie a film leggeri come Men in Black e Bad Boys. Ma nel 2022 era finalmente in procinto di ricevere l’Oscar come miglior attore per il ruolo di Richard Williams in Una famiglia vincente – King Richard: doveva essere il momento più importante della sua carriera. Ma, poco prima della consegna della statuetta, Chris Rock dal palco ha fatto una battuta su sua moglie Jada Pinkett, che si era rasata la testa a causa dell’alopecia. Smith è salito sul palco e, davanti gli occhi di decine di milioni di telespettatori, ha dato uno schiaffone a Rock: «Tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua cazzo di bocca!», ha poi ruggito. Per un attimo è sembrato uno sketch comico concordato, ma non era così. Smith ha comunque ricevuto il premio come miglior attore e ha tentato di scusarsi, ma non è stato sufficiente. L’Academy l’ha bandito dagli Oscar per 10 anni e Apple è stata costretta a ritardare di diversi mesi l’uscita del suo nuovo progetto Emancipation, perché l’incidente dello schiaffo aveva sollevato un polverone troppo grosso. Il film, comunque, è andato male. Smith ha fornito a Rock dell’ottimo materiale da utilizzare nel suo tour di stand-up comedy successivo, ma non ha tratto alcun beneficio dall’incidente, che è stato solo un errore clamoroso e involontario.
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Nel 1997, il professore di Harvard Clayton Christensen ha pubblicato il libro rivoluzionario Il dilemma dell’innovatore. Il saggio spiegava che le aziende di grande successo spesso falliscono nel lungo periodo, perché le imprese coraggiose e innovative, che hanno poco da perdere, hanno più facilità a implementare nuovi sistemi in grado di rivoluzionare un’attività. Quando il libro è stato scritto, Blockbuster era all’apice della sua potenza: i suoi negozi di videonoleggio punteggiavano i paesaggi delle periferie urbane ed erano onnipresenti, proprio come Starbucks o McDonald’s. Quando poi è arrivato Netflix e ha preso a spedire i DVD direttamente agli utenti, eliminando le spese di mora e la necessità di uscire di casa, Blockbuster non ci ha visto nessuna minaccia, né ha ritenuto di dovere cambiare il proprio modus operandi. Nel 2000, Blockbuster ha poi avuto l’opportunità di acquistare Netflix per 50 milioni di dollari, ma l’ha rifiutata. «Merda», ha ricordato di avere detto il cofondatore Marc Randolph dopo l’incontro. «Blockbuster non ci vuole. Quindi ecco cosa dobbiamo fare adesso… sembra proprio che dovremo prenderli a calci nel culo». A 23 anni di distanza, Netflix è valutata quasi 200 miliardi di dollari. Blockbuster non esiste più, a tutti gli effetti, a parte un singolo negozio a Bend, in Oregon: nel momento di massimo splendore della catena se ne contavano più di 9.000. Se avesse fatto una mossa diversa nel 2000, Blockbuster Netflix ora potrebbe essere il nome più importante del mondo dello streaming.
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Se, negli anni ’70 o nei primi ’80, dovevate girare un filmone e vi serviva un protagonista, probabilmente avreste offerto il ruolo a Burt Reynolds. Quest’uomo è stato un titano di Hollywood per tutta l’era dei grandi film di cassetta come Un tranquillo weekend di paura, Il più bel casino del Texas, Quella sporca ultima meta, Il bandito e la “Madama” e La corsa più pazza d’America. Ma aveva anche un notevole talento nel rifiutare i film. La sua serie di decisioni sbagliate clamorose è partita non accettando il ruolo di James Bond, dopo che Sean Connery aveva fatto un passo indietro: riteneva che gli americani non avrebbero accettato un Bond americano. Ha continuato non volendo fare la parte di Michael Corleone nel Padrino, quella di Jack Nicholson in Qualcuno volò sul nido del cuculo, toccando poi l’apice col rifiuto dell’offerta di interpretare Han Solo in Star Wars. Anni dopo, ha declinato l’opportunità di interpretare il ruolo di Richard Gere in Pretty Woman. Al Pacino, Roger Moore, Harrison Ford, Jack Nicholson e Richard Gere gli saranno per sempre grati per queste scelte, ma Reynolds si è pentito di quasi tutte. Almeno ha accettato di fare Un piedipiatti e mezzo, Il bandito e la “Madama” parte 3 e Not Another Movie.
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Il conquistatore, film storico del 1956, era infarcito di pessime scelte prima ancora che partissero le riprese. Il ruolo principale del conquistatore mongolo Gengis Khan era stato scritto in origine per Marlon Brando: ma sarebbe stato davvero ridicolo. Quando lui si è tirato indietro, non è stato scelto un vero attore asiatico che potesse essere credibile in quei panni. Hanno invece chiamato John “suprematismo bianco” Wayne. Vi state chiedendo se gli hanno imbrattato la faccia con del trucco e hanno usato degli elastici per tirargli indietro gli occhi? Ovviamente sì. Come se tutto questo non fosse già abbastanza folle, hanno anche deciso di girare il film nelle zone dello Utah dove erano stati condotti degli esperimenti nucleari. È impossibile provare la relazione causa-effetto fra le due cose, ma il 41% della troupe si è ammalato di cancro nei decenni successivi e il 21% ne è morto. In quel 21% è incluso anche Wayne. Non si può nemmeno dire che tutte queste persone siano morte per un bel film: Il conquistatore è semplicemente orribile. «Wayne dipinge il grande conquistatore come una sorta di incrocio tra uno sceriffo che spara a raffica e un idiota mongolo», ha scritto il Time in una recensione pungente. «Va bene giusto per un paio di ghignate, ma a parte questo il film è noioso».