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‘Le occasioni dell’amore’ è il più bel mélo che vedrete quest’anno

Stéphane Brizé dirge un film che riecheggia il vecchio cinema francese, ma con cui mantiene il suo occhio preciso sulle relazioni di oggi. E Guillaume Canet e Alba Rohrwacher sono semplicemente magnifici

Foto: Michael Crotto

Que reste-t-il de nos amours? Delle foto buffe, “mi hai insegnato tu a farle”. Una musica al piano da ascoltare nelle cuffie, “sei il primo, non l’ho fatta sentire a nessun altro”. Un incontro per caso, su una spiaggia d’inverno, “mi sono trasferita apposta qui, sapendo che un giorno saresti venuto”. Lei scherza, ma forse è vero. Chi l’ha detto che non si può anticipare il destino, che non si può beffarlo.

Le occasioni dell’amore (titolo italiano improprio ma calzante di Hors-saison, in concorso a Venezia 80 e ora finalmente nelle sale dal 23 dicembre con I Wonder Pictures) sono quelle di Mathieu e Alice, cioè Guillaume Canet e Alba Rohrwacher. Lui attore di cinema a cui tutti chiedono i selfie, lei pianista e compositrice mancata che si è ritrovata a insegnare pianoforte ai ragazzini in provincia. Si sono amati quindici anni prima, si ritrovano per caso adesso che lui è fuggito dalla città e da uno spettacolo a teatro che gli metteva paura.

Un uomo, una donna. Stéphane Brizé, che tutti negli ultimi anni leghiamo ai film sul lavoro con Vincent Lindon (la trilogia La legge del mercato, In guerra e Un altro mondo), racconta Una vita (come uno dei suoi film nascosti nelle pieghe dei drammi sociali, tratto da Maupassant), anzi due, e rinnova il canone del mélo francese.

Non si può non pensare a Lelouch, a Sautet, a Téchiné (nell’albergo termale bretone dove soggiorna Mathieu si sente l’eco dell’Hôtel des Amériques di Catherine Deneuve e Patrick Dewaere). Per scrittura, luoghi, musiche: splendida la colonna sonora di Vincent Delerm, che rievoca i Legrand che furono. Ma si ritrova l’occhio analitico, preciso, quasi geometrico con cui ha raccontato la fabbrica, gli uffici, le classi sociali e professionali. È un cinema sempre di relazioni, quello di Brizé, solo spostato dal fuori al dentro. Ai piccoli smussamenti, ai risentimenti, alle luci che si riaccendono, e chi riesce a spegnerle più.

La scena che dice tutto – del suo stile, del suo sguardo, del suo modo sempre politico di fare cinema – è la ripresa con lo smartphone fissa sul volto di Lucette Beudin, un’anziana e amabile signora che vive in una casa di riposo e racconta com’era l’amore prima, come vivevano le donne quando non potevano scegliere per sé, come tutti, per mille motivi diversi, freniamo, reprimiamo, scansiamo i sentimenti per qualcos’altro che, nell’ordine quotidiano delle cose, arriva sempre prima. Oggi è felice perché sta per sposare Gilberte, una coetanea incontrata all’ospizio e diventata il suo amore.

Le occasioni dell’amore è un film solo apparentemente d’amore, ed è anche uno dei più grandi film d’amore (e sull’amore) che il cinema recente ci abbia dato. C’è la mano di Brizé (che ha scritto il copione con Marie Drucker), e c’è soprattutto l’alchimia incredibile tra Canet e Rohrwacher. Lui sembra dissezionare il suo essere attore e regista famoso (e sposo famoso di Marion Cotillard); lei fa uno dei lavori più lucenti, sensibili, importanti della sua carriera.

C’è anche un finale bellissimo e struggente, anzi più di uno. Per alcuni sono troppi, e invece è giusto che gli amori vadano così, con mille finali. Che facciano giri immensi, e ritornino, e chissà poi come finiranno. L’amore è, dopotutto, “un souvenir qui me poursuit, sans cesse”. Lo diceva sempre quella canzone là, e le canzoni d’amore c’hanno sempre ragione.

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