C’è qualcosa di arcano, di mistico e di sacro nell’invenzione di una lingua. E di liberatorio, di catartico, di salvifico. Perché le parole (come già disse qualcuno) sono importanti: anche e persino quando non significano niente. E sono messe lì, in fila una all’altra, in un ordine apparentemente casuale: e che invece si rivela logico, strenuamente attuale, necessario. Parole senza senso che un senso – nel mondo che ha perso la ragione – ce l’hanno eccome: traducono l’intraducibile, custodiscono e preservano fino all’oggi e oltre il domani ciò che altri vogliono cancellare, distruggere, negare per sempre.
Chi studia le origini della lingua è convinto che gli uomini la svilupparono, non accontentandosi più solo dei gesti, per il bisogno di cooperare con gli altri: spinti in questo dall’eterna lotta per la sopravvivenza. Che in fondo è la ragione che motiva anche lo straordinario protagonista di Lezioni di persiano (mercoledì 27 gennaio alle 21.15 su Sky Cinema Due e alle 21.45 su Sky Cinema Collection – Settimana della Memoria): che, ebreo, si finge persiano perché uno degli ufficiali del campo di concentramento dove è stato deportato vuole imparare il farsi. Di cui lui non conosce ovviamente nemmeno una parola: ne inventerà allora una alla volta, creando una lingua dal nulla, geniale artificio di chi oltre i nazisti sente però di ingannare anche il suo stesso destino.
Ma se l’innesco del film dell’ucraino Vadim Perelman (quello, per intenderci, della Casa di sabbia e nebbia) è folgorante (da un punto di vista etico oltre che narrativo), l’ideazione di un idioma permette al regista di andare oltre il pur lucido resoconto delle atrocità della Shoah, sancendo l’incontro imprevedibile tra teatro dell’assurdo e tragedia (dis)umana, inferno e poesia. In un’epoca dove le parole hanno perso qualunque significato e utilità, dove il bisogno primario di comunicare (e spiegarsi, capirsi) è cancellato, proibito, tempo folle in cui i carnefici non discutono ma danno ordini e le vittime sono costrette al silenzio (e alla morte), quella lingua fasulla che Gilles/Reza decide di condividere con il suo aguzzino porta con sé non solo una promessa di salvezza, ma anche il codice segreto per decrittare l’enigma dell’odio e della violenza. Costringendo l’ufficiale a scendere sullo stesso piano del prigioniero: a condividere (e non era questo, la condivisione, la comunicazione, che cercavano forse anche gli uomini preistorici che oltre 160mila anni fa svilupparono le prime forme di lingua?) informazioni personali in un dialogo dove addirittura si annidano vaghi barlumi di umanità sepolti sotto montagne di giustificazioni e cicatrici. Lasciando che, nella crudele messa in scena dell’orrore, svestita per un attimo l’uniforme, la nuda verità, paradossalmente, indossi l’abito di quelle parole finte, false.
Ma Perelman non si accontenta, alza la posta: e nel suo film intenso e toccante finisce per consumare la rivincita di chi, con l’uso intimamente e intrinsecamente pacifista del linguaggio, salva dalla morte se stesso e dall’oblio tutti gli altri. Perché la chiave che fa di Lezioni di persiano un’opera importante e originale anche nell’ambito del cinema dell’Olocausto (quello che racconta l’irraccontabile) è proprio il modo in cui il protagonista ferma nella mente termini e parole che altrimenti non potrebbe ricordare: collegando a ognuna un volto, un nome, dei suoi compagni di prigionia, così da non dimenticarseli più. Mai più. Come gli uomini-libro di Fahrenheit 451, anche lui conserva gelosamente ciò che altri volevano distruggere per sempre: costruendo, pezzo per pezzo, parola per parola, il santuario della memoria. Il monumento-monito che restituisce un’identità agli oppressi: e che va ogni giorno difeso e tutelato da chi ancora vorrebbe cancellare ciò che è stato.