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Libero De Rienzo, l’amico geniale

Era l’attore migliore della sua generazione. Ma era, soprattutto, un uomo straordinario. E solo per questo non va dimenticato. Buon viaggio Picchio, nel ricordo di chi lo conosceva bene

Foto: 01 Distribution

Eri un cagacazzi, Libero. Il più grande che io abbia mai conosciuto. Il più adorabile. Quello sguardo disincantato ma dolcemente spietato si appoggiava su di te e aveva il potere di metterti a tuo agio e allo stesso tempo di farti sentire scomodo. Perché non ne facevi passare una, a te stesso e agli altri. C’era sempre qualcosa che potevi, potevamo fare meglio e con più decisione e coraggio. Eri come Giancarlo, e forse per questo tutti noi pensiamo a Fortapàsc ora. Perché quando ce lo mostrasti, quel film, sapevi che non c’era dentro solo la storia di Siani, sapevi che Marco ti aveva scelto (ma è vero anche il contrario, Risi racconta spesso come tu abbia preteso quel ruolo, non poteva che essere tuo) perché eravate due anime gemelle. Con l’inconsapevole certezza che il mondo non era posto per voi. Che voi l’avreste reso migliore ma che vi avrebbe ucciso.

Cazzo, Libero, che scherzo di merda ci hai fatto. Riguardo WhatsApp e quell’appuntamento rimandato e spero che le spunte siano diventate blu, che sia una di quelle tue battute al contrario che capivamo in pochi e che ci facevano ridere soprattutto quando non venivano capite dagli “altri”. Eri un Heyoka, un Contrario: li chiamavano così gli Indiani d’America che si comportavano e parlavano al contrario, dicevano che qualcosa era bello quando era brutto, che erano felici mentre piangevano, che urlavano senza emettere suoni. Erano un monito di riflessione e critica costante. Come te. Ne eri affascinato, finché non ti ho detto che l’avevo scoperto sul fumetto Magico Vento. Ah, ce l’hai ancora te, quell’albo.

Libero De Rienzo è Giancarlo Siani in ‘Fortapàsc’ di Marco Risi. Foto: 01 Distribution

Ci scriviamo tanto, tutti, ognuno con un pezzetto di te. Perché ti donavi con generosità e con la stessa passione con cui ti negavi se pensavi di essere stato tradito. E di solito se pensavi questo è perché uno di noi non aveva fatto abbastanza. Per qualcuno, per qualcosa, per quel noi che era al centro di quei progetti che seguivi con amore, dal festival a Procida (lo sai, sì, che quel no che ti stupì tanto e ti rese forse un po’ orgoglioso di me nacque dall’averci impedito di lavorare insieme?) alla trasmissione tv sui tecnici del cinema che pensavamo durante il lockdown. Scusa, Libero, se non ci ho creduto abbastanza, era impossibile crederci quanto te. A tutto. Era impossibile essere alla tua altezza.

A me interessa raccontare come hai vissuto, non me ne frega un cazzo come sei morto, queste cose le lascio a quegli sciacalli dei miei colleghi. Mi rimproveravi sempre gli errori della mia categoria, come se fossero miei. Ci litigavamo, ma avevi ragione e per questo questa volta non ci passerò sopra. Mi rispettavi forse per come scrivevo – anche se in vent’anni ricordo due complimenti due in proposito, e non riguardo pezzi su di te –, hai cominciato di più a farlo quando ho iniziato a dirigere dei festival. Forse perché i giornalisti, nella tua lista nera, venivano subito dopo le guardie, ma siccome eri un animo grande, oltre che il miglior attore della tua generazione, hai reso onore a una divisa nello splendido ruolo nel film tv su Nassiriya.

Lo so che vi piace pensare a Libero De Rienzo come al Bart di Santa Maradona e al Bartolomeo di Smetto quando voglio. Lo so, ed era anche quello. Ma non soprattutto quello. Lui era rigore e stacanovismo, oltre a quella inquietudine iconica e ironica che si nascondeva dietro un apparente cialtronismo (quanto avresti dovuto esserlo di più). Era un bravo attore e i suoi Bart erano un’ottima maschera per chi non voleva conoscerlo abbastanza. Ma chi lo ha amato, chi ci ha lavorato, chi lo ha accompagnato per un pezzo di strada lo ha capito subito chi era. Libero era un libro aperto, ma infinito. Nessuno lo ha letto tutto, ma nessuno riusciva a smettere di leggerlo.

Ti si spezza il cuore mentre ridi, quando pensi a lui. Alessio Maria Federici, regista, bravissimo ma troppo commerciale per finire nel salotto buono della critica e dei giornali, mi ha mandato un audio su WhatsApp (non lo amavi molto, ma non hai idea quanto ci stia salvando ora questo sistema di messaggistica, a noi rimasti qui). Neanche due minuti. Piange, ride, racconta. Come me a Radio Rock, venerdì, quando la notizia mi è arrivata in diretta. Un incubo. Eravate compagni di banco al liceo, lui sa parecchio delle tue donne – di tua mamma persa troppo presto, di chi hai amato per prima al liceo e a cui hai dedicato Sangue –, di quelle donne che hanno scavato un abisso dentro di te. Come di chi lo aveva riempito, come Marcella. Piange, pensando all’ultimo copione che ti ha mandato e che volevi fare, al primo compito di greco in cui lui prese due e tu punto interrogativo (già allora non ti capivano, Picchio), del compito della maturità passato sbagliato, di quando, sempre a scuola, volevi fermare da solo un’intera squadra di pallone e facevi a botte con tutti perché contro i fascisti del quartiere non si doveva neanche scendere in campo. «Picchio era tante cose insieme, Picchio era un urlo di libertà», così finisce quell’audio. Ma tutti, tutti hanno parlato di te. «Stai a esagerà, fratè», diresti ora, ma è così. E tutti si ricordano le risate. Che ci facevi fare, perché a te farti scoppiare a ridere era un’impresa. Tutti. Anche se tu potevi tirare un discorso avanti ore, essere serissimo. Poi però l’illuminazione della tua ironia faceva brillare tutto.

Forse per questo ci sembravi invincibile, immortale, forse per questo quella fragilità ci faceva paura, ma pensavamo che avresti sempre avuto modo di domarla. Io mi ricordo a vent’anni, quando ci puzzavamo di fame tutti e due. Perché nessuno ci ha regalato niente, perché così volevamo noi. Me le ricordo le tre giorni in cui non si usciva da casa tua e da lì passavano tutti, e tanti ora hanno carriere sfolgoranti. Me lo ricordo un grande autore del cinema francese quando “ce l’avevi fatta” che chiamava e tu non gli rispondevi «perché non lo voglio fare l’attore». E io ti pregavo di accettare, rispondevo al maestro e mi fingevo il segretario del tuo agente e gli assicuravo che avresti fatto il film. Non mi facevo una ragione che alcuni registi che stimavamo a bestia non ti chiamassero, tanto eri perfetto per loro e viceversa. Poi mi capitava di incontrarli e scoprire che avevi rifiutato tu. Perché di una sceneggiatura bastava una pagina, anzi tre righe sbagliate, che non corrispondevano alla tua idea di libertà e bellezza e giustizia, e la scartavi (da qualche anno avevi permesso all’emozione di scansare un po’ l’ideologia, ma non troppo). Sognavi la regia dopo quel folgorante esordio, ma la verità è che poi ti buttavi per una rampa di scale a fare l’operatore di seconda unità. A volte sceglievi un film come attore solo perché te lo facevano fare. Perché te non volevi fare il capitano, ma il gregario. Massimiliano Bruno, che con “graffiato dalla vita” ti ha dipinto, raccontava quando facevi il tecnico per lui. Eri uno che si sporcava le mani.

Picchio, io ho iniziato a scrivere pensando che dovevo farli ridere, che a te sarebbe piaciuto così. Ma come si fa? Qui la stanno facendo sporca giornali, forze dell’ordine che spediscono veline violando ogni segreto istruttorio, quei social che tu abitavi con la goffaggine di chi guardandoti negli occhi ti fa innamorare, perché dentro di te c’erano Noel Gallagher, Belmondo e pure Troisi. Ma di persona, quel mondo lì a che serve? Picchio, perché sto scrivendo queste righe? Di te hanno parlato tutti e ognuno ha raccontato un pezzo vero di te. E c’è chi lo ha fatto molto meglio di me. Ci sono i 21 punti di Marco Ciriello che dovremmo urlare a ogni anniversario della tua partenza, c’è il saluto struggente e perfetto di Emanuele Trevi. Perché la corsa al morto, all’”io lo conoscevo bene”, questa volta è vera. Lasciavi qualcosa a tutti, con la stessa forza con cui sapevi essere severo nel giudicare e combattere scelte, visioni, pareri altrui, eri generoso con le persone con cui lavoravi o che solo incontravi e volevano un pezzo di te. Non ti risparmiavi mai, valeva sempre la pena. Se c’era da parlare, ridere, nessun secondo era inutile. Ha ragione Trevi, noi lo sapevamo che «un anno dei tuoi erano dieci dei nostri». E mi prendevi in giro perché avevo fatto mille lavori e avuto almeno quattro vite, ma tu eri una supernova.

Mi viene in mente la lettera di Iñárritu a Cuarón, in occasione dell’Oscar a quest’ultimo. Non so perché la leggemmo insieme, se non ricordo male l’avevo sottolineata sul libro di Simone Santi Amantini Alfonso Cuarón: Cinema in assenza di gravità che mi ero portato dietro, e tu ridevi perché leggevo mentre camminavo intruppando persone e semafori. Alejandro dice a un certo punto: «Loro sanno solo che sei il regista migliore di tutti, il migliore di noi. Ma non sanno che padre meraviglioso tu sia, che amico straordinario tu sia, che marito tu sia. Hai vinto l’Oscar, ma quello che conta è che sei un uomo incredibile». Probabilmente non ricordo bene neanche una parola, ma ho dentro la sensazione di quando l’abbiamo letto. E ora mi fa pensare a te. Ti stanno ricordando, rimestando nella merda, per come potresti essere morto, ma c’è così tanto da dire su come hai vissuto, amico mio. E anche chi ti ricorda solo come attore non dice abbastanza. Dovrebbe ricordare il discorso cazzuto di quando ritirasti il David per Santa Maradona, i red carpet da eroe hard boiled, il fatto che i tuoi Bart non erano anti-Sistema, ma oltre il Sistema, come te.

Libero De Rienzo con Nicola Nocella in ‘Easy – Un viaggio facile facile’. Foto: Tucker Film

Quelle parole tra quei due amici messicani ti commossero ma facemmo finta che no, mica avevamo gli occhi lucidi (poi coi figli ci siamo concessi che sì, potevamo commuoverci in pubblico: ma chi se lo scorda che ti sei fatto centinaia di metri carponi per cercare un giocattolo che Carlo aveva perso?). Eri l’attore migliore di tutti. Di tutti, nessuno escluso (e a dirlo sono i tuoi coetanei che ora hanno bacheche piene di premi). Ma, semplicemente, non ti andava di esserlo. Come Best a fine carriera che scarta due avversari ma invece di andare in porta va al centro del campo, finta di corpo e fa un tunnel a Cruijff. Poi calcia via il pallone e gli dice: «Tu sei il migliore, ma solo perché io non ho tempo». Ecco, per i tuoi sentimenti, per le tue ambizioni, per i tuoi ideali l’impressione di tutti noi è che non ti bastasse il tempo, che nessuna vita sarebbe stata abbastanza, figuriamoci questa che ti ha visto andare via così presto.

Incredibile, sono un critico cinematografico e non ho detto niente di te come attore. E allora fammi ricordare Ho ucciso Napoleone, Miele e La kryptonite nella borsa, dove andavi lontano da te e si capiva che avresti potuto fare qualsiasi personaggio, pure un supereroe Marvel, se avessi voluto. O quando ti bastavano pochi minuti per riempire un ruolo. Il fratello in Easy – Un viaggio facile facile con Nicola Nocella, duetto tra titani, me lo sono rivisto per primo in questi giorni. Che poi non deve essere un caso che le parti da fratello ti riuscivano così bene, pensa a quello di A Tor Bella Monaca non piove mai (film sottovalutato, ti capitava spesso). E poi Benzina di Monica Stambrini e quel parcheggiatore, A/R Andata + Ritorno (quanto t’ha capito, Marco Ponti) e l’ultimo, Fortuna. Anche se poi sono giorni che sento in cuffia Santa Maradona e Ogni volta di Vasco che stava in Fortapàsc, tu sai dove.

Mi piace pensare, Libero, che come in Smetto quando voglio tu te la sia solo data a gambe perché non avevano accettato un postdatato. Ma in attesa che torni, se avete letto fin qua, vi chiedo un solo favore: Libero De Rienzo non cercatelo su Google. Fate uno sforzo, cercatelo nei ricordi di tutti noi, in quello che ha lasciato in chi non l’ha conosciuto, non nelle notizie di questi giorni. Nel ricordare le battute che sono rimaste nell’immaginario collettivo. Libero De Rienzo era un artista unico. Libero De Rienzo era un padre meraviglioso. Libero De Rienzo era un amico geniale. E no, su WhatsApp le spunte blu non ci sono ancora.

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