Quando ho iniziato a fare questo lavoro nella tv locale, ricordo di aver raccolto la testimonianza di un sopravvissuto per la Giornata della Memoria. E ricordo ancor meglio la sua ansia di raccontare tutto il dramma, tutto l’orrore, il prima possibile, “finché sono ancora qua”, mi diceva con la fretta di parlare, spiegare, fotografare. “Perché sennò la memoria svanisce. E io non posso permetterlo”. Ecco perché Liliana (al cinema come evento speciale con Lucky Red) è importante.
“Io sono profondamente pessimista, sono sicura che nel giro di trenta-quarant’anni la Shoah sarà una riga nei libri di Storia e poi neanche quella”, dice Segre nel documentario che la racconta come donna, come testimone e anche come simbolo. “Ci sarà un continuo negare quello che è stato, fa comodo a quasi tutto il mondo negare perché c’è chi è stato attore e chi ha lasciato che tutto questo venisse fatto”. Ecco, il motivo per cui credo che Liliana Segre abbia voluto registrare le sue parole – dopo averle ripetute ovunque, il più possibile – è lo stesso che ha mosso quel signore: è perché tutti abbiano il diritto e il dovere di ascoltarle, inequivocabilmente, sempre e per sempre. Contro la “tentazione dell’indifferenza” (cit.), che pare assurdamente sempre più potente in questo tempo di eterno presente.
Mi era già capitato di incontrare la senatrice a vita sopravvissuta ad Auschwitz a Venezia per un altro documentario, 1938 – Diversi, a ottant’anni dalla promulgazione delle leggi razziali. Le chiesi cosa le faceva più paura della situazione in Italia (era il 2018): “Mi fa paura quella parola che mi faceva paura anche allora e che ho voluto fortissimamente scritta a caratteri cubitali al binario 21 del Memoriale della Shoah a Milano: INDIFFERENZA. L’indifferenza è stata colpevole allora perché non ci si può difendere da chi volta la faccia dall’altra parte: si cerca di difendersi da chi è violento, ma non da chi fa finta di non vederti e di non vedere. Ed è lo stesso pericolo che c’è anche oggi”.
Sono “parole esperienziali, quindi ogni parola è pesantissima”, sottolinea Fazio, tra i personaggi intervistati, “insieme di una semplicità disarmante e di una forza straordinaria”, gli fa eco Mentana. Soprattutto oggi, a ottant’anni dall’apertura dei cancelli di Auschwitz, dove Liliana non è mai tornata: “Non posso sopportarlo, chi c’è andato è stato più forte di me, io non lo sono mai stata abbastanza”.
Ma il ricordo è preciso, implacabile nei dettagli, eppure sempre estremamente attento alle sensibilità altrui: Liliana bambina orfana di madre, l’arresto, la deportazione, il giorno in cui sono arrivati al campo e ha dovuto lasciare la mano del padre, il lavoro forzato, le ciminiere, e poi, un giorno, dei fuochi in lontananza, la partenza dal lager, la marcia della morte, i tedeschi che gettano le divise nei fossi: “Io, che per un anno e mezzo mi ero nutrita di odio e di vendetta, quando vidi il comandante cambiarsi ebbi un impulso terribile di prendere la pistola da terra e sparargli. Ma fu proprio un attimo, poi ebbe il sopravvento l’educazione, l’etica che io avevo ricevuto che mi faceva essere così diversa dal mio assassino. Io non ero, non sarei mai stata un assassino, la mia era una cultura di vita e non una cultura di morte come quella nazista. Ho scelto la vita e sono diventata libera”.
Il documentario unisce una testimonianza d’archivio inedita degli anni ’90, registrata per un lavoro precedente di Ruggero Gabbai, Memoria – I sopravvissuti raccontano, a un’intervista contemporanea, ed è completata dal racconto (altrettanto tosto) dei figli: “È impressionante come si stacchi da se stessa quando racconta, è come se parlasse di un’altra persona, come se ogni volta facesse dentro e fuori da se stessa, da quella bambina di allora. E un paio di volte ha detto: ‘Se non riesco più a tornare in me, perderò la testa’. Sono certa che non racconti tutto, non per non darsi completamente, ma perché non ce la fa”, spiega la figlia Federica Belli Paci, che, insieme ai fratelli Alberto (come il padre di Liliana) e Luciano, rammenta anche un profondissimo momento di depressione della madre, dopo il quale Segre ha deciso che era arrivato il momento di parlare: “È durato 45 anni il mio silenzio. C’era qualche cosa che diceva basta, nessuno può capire. Poi non voglio neanche che nessuno di quelli che amo capisca, perché è un’eredità terribile quella che lascio io”.
Terribile, certo, ma preziosissima, indispensabile: “La memoria è ciò per cui noi non siamo una massa indistinta”, afferma ancora Mentana. “È la Storia com’è avvenuta, com’è stata percepita, come la ricordiamo. Senza, e lo stiamo un po’ toccando con mano, si può dire tutto e il contrario di tutto. La democrazia è messa in discussione, il fascismo è messo in discussione, Auschwitz è messo in discussione. Ma è messo in discussione anche quello che sta succedendo, si può dire che non sta succedendo”. Eppure sta succedendo, vedi i messaggi e le minacce colmi di odio che la senatrice ha ricevuto nei giorni scorsi sui social.
Liliana si conclude con la nomina a senatrice a vita di Segre da parte di Mattarella, un passaggio quasi naturale dopo il lavoro di testimonianza instancabile. La memoria di quello che è successo è diventata un monito per il futuro, ma un monito senza odio.