La Nostalgia si affaccia timidamente da una porticina nel cervello dell’ormai tredicenne Riley, e le altre emozioni la cacciano in malo modo: è troppo presto per te, torna tra un po’. Però.
Però ho visto Inside Out 2 in una sala piena di ragazzini più o meno dell’età di Riley, o poco più grandi, che sono forse la generazione più nostalgica di sempre, (rim)piangono un mondo che non hanno mai visto, sospirano di fronte alla bellezza di quando non c’erano gli schermi dei telefoni a connetterci tutti in realtà isolandoci, cantando la poesia del mondo analogico – dopo essersi fatti un selfie prima dell’inizio della proiezione, ma vabbè.
O almeno così ci viene raccontata la generazione giovane o giovanissima sui giornali, scritti da gente che va per la terza (quarta) età e nostalgicissima lei stessa. In mezzo, le altre generazioni – i venti/trenta/quarantenni: eccomi fra gli ultimi – che nel mito della Nostalgia sono nati, una Nostalgia maiuscola come il personaggio del film, sentimento largamente antropomorfizzato da decenni, noi siamo Leggenda perché noi siamo Nostalgia, e la Nostalgia è sempre leggendaria.
L’incredibile, ma in fondo non così imprevedibile, successo di Inside Out 2 anche da noi (quasi 17 milioni di euro in sei giorni di programmazione; più di 700 nel mondo) ci dice che la Nostalgia è l’unico sentimento a muoverci come collettività, le generazioni tutte e tutte insieme unite da una sola emozione – o forse due, ma ci arrivo fra poco.
Al cinema mi metto sempre in seconda o terza fila, quindi la mia esperienza della sala, come si dice oggi, è sempre relativa. È sempre come guardare il film da solo, che per quanto mi riguarda è la condizione ideale. Però sentivo dietro di me quelle file e file di ragazzine e ragazzini (più ragazzine) direzionare la propria onda emotiva verso quei momenti che urlavano: Nostalgia. Su tutte: l’apparizione del broccolo che fu cruciale nel primo film. Lì proprio ho avvertito un palpito unanime martellare per la platea.
Non sono un nostalgico e non sono un ansioso, dunque questo non sarebbe il film per me. Perché l’altra emozione cardine, ci viene detto, è l’Ansia, sempre maiuscolo perché è – l’avrete ormai visto tutti – un altro personaggio, anzi IL personaggio di questo sequel, un po’ villain a sua insaputa, un po’ alleata che siamo costretti ad accogliere se vogliamo diventare adulti. Il piccolo particolare è che: non vogliamo.
Anche qui, i giornali scritti dai vecchi (eccomi qua, di nuovo) ci raccontano che queste nuove generazioni sono nostalgicissime e insieme ansiosissime, la scuola, la performance, il bullismo, la DAD, l’adolescenza interrotta dalla pandemia, il cyberbullismo, i like sui social dunque di nuovo la performance, e poi il mondo del lavoro là fuori, impossibile quindi beccatevi quest’altro caricone di ansia (no: Ansia) preventiva.
È tutto più complesso di così (ma dai), ci dicono certi recensori – ovviamente americani – che si credono intelligentissimi. L’Ansia non può essere ridotta a pupazzetto che va in iperventilazione e schiaccia bottoni a nastro (ma dai). E anche la Nostalgia non è un joke da congedare chiudendo la porta. Certo che è più complesso di così, e lo dico da non nostalgico e non ansioso, ma è anche vero che questa semplificazione della complessità (viviamo, del resto, in un mondo in cui è tutto übersemplificato: un mondo per giovani e giovanissimi, che è ciò che vogliono sentirsi anche i vecchi); dicevo, questa semplificazione della complessità mi pare la principale causa del successo del film.
Certo, alle spalle c’è uno dei capolavori di scrittura (e non solo d’animazione) degli ultimi quindici-vent’anni, perciò, dicevo, questo successo taylorswiftico non stupisce. Ricordo che vidi il primo Inside Out a Cannes nell’anno di film come Carol, Mad Max: Fury Road, The Lobster, e c’era pure il sottovalutatissimo Irrational Man di Woody, e sembrò a tutti la cosa più strabiliante di tutte. Certo, rispetto agli altri titoli citati sembra oggi molto più vecchio, forse perché è stato subito un classico, forse per la sua natura così transgenerazionale. Ricordo anche che, piangendo nella Salle Lumière, mi dicevo, forse all’epoca solo incosciamente: “Però se mettiamo sullo stesso piano adulti e bambini è davvero la fine”. E infatti.
E infatti, in quella sala del centro di Milano, una delle pochissime rimaste, piena di ragazzine e ragazzini tredicenni o poco più grandi, l’altro giorno mi chiedevo: “Come fa, questo film, ad essere roba loro?”. E invece lo era – lo è – tanto quanto lo è di chi all’epoca del numero 1 aveva dieci, venti, trent’anni, e quanto lo sarà di chi non era manco nato.
Era/è di tutti il broccolo passato da cosa più schifosa che ti obbligavano mangiare a madeleine che oggi ti fa versare fiumi di lacrime. Era/è di tutti la dinamite in 2D, il cui effetto straniante non stava tanto nel “matita vs. computer”, ma nel dire a tutta la sala: “I cartoni di quando eravate piccoli non torneranno più” (e giù a piangere di nuovo).
Non ero qui per dire se Inside Out 2 è un bel film (naturalmente lo è, in barba ai recensori che la sanno sempre più lunga), ma per riconfermare che quando ci sono i film, le storie, quando ci sono emozioni che affratellano in qualche modo tutti (pure nel farci ritrovare tutti, a qualsiasi età, impreparati al mondo dei grandi), nessuno ricaccia il Cinema dietro la sua porticina.