‘L’innocenza’: la recensione del film di Hirokazu Kore’eda | Rolling Stone Italia
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‘L’innocenza’ è l’ennesima sintesi del cinema di Hirokazu Kore’eda

Le famiglie allargate e sgangherate, la visione del mondo insieme classica e “presentissima”, l’orrore che cerca sempre la gioia. La recensione dell’ultimo (bellissimo) film del regista giapponese

‘L’innocenza’ è l’ennesima sintesi del cinema di Hirokazu Kore’eda

‘L’innocenza’ di Hirokazu Kore’eda

Foto: Bim Distribuzione

Quelli di Hirokazu Kore’eda non sono film. È uno “stare nel” cinema, accomodarsi, vedere dove ti portano le cose, dove ti porta lui. Sono una specie di corpus unico e sempre più allargato, come le famiglie che racconta. Un manifesto etico e poetico, un mondo alternativo ma non da intendersi nel senso di distopico, come usa oggi, se mai sempre più vero del vero.

Hirokazu Kore’eda ha 62 anni e forse, chi può dirlo, è un altro Benjamin Button. Più invecchia e più il suo cinema ringiovanisce, o forse l’età lo rende più diritto, più sintetico, più affilato, rispetto a sé stesso (a quel mondo alternativo che dicevo) e al presente da cui non smette di disancorarsi, anzi.

L’innocenza, l’ultimo film, nelle sale dal 22 agosto con Bim Distribuzione, è ancorato al presente in modo esagerato. Minato (Soya Kurokawa, che faccia), 11 anni e una madre rimasta vedova (bravissima Sakura Andō), inizia a comportarsi in modo strano. È triste. A scuola sta succedendo qualcosa. Forse è colpa di un giovane professore (Eita Nagayama) che sembra uscito da Johnny (è quasi magia). Qui partirebbe, almeno da noi, una tirata sull’autorità che oggi non conta più niente, e sui genitori che vanno a lamentarsi con il preside dei loro poveri figli vessati da adulti che non li capiscono, anzi li traumatizzano per la vita.

Comincia così, seppur con le dovute sfumature di costume, anche qui, anche in Giappone, con la mamma che effettivamente dalla preside ci va. E però poi succede qualcos’altro, perché è tutto più complesso di come sembra. Il mondo alternativo di Kore’eda è più complesso, e pure il presente nostro. E allora ti accomodi, “stai nel” suo cinema, e lui ti porta dove vuole, in quel suo mondo alternativo dove tutto può accadere, secondo quella modalità Rashōmon che piace tanto ai registi, non per forza d’Oriente.

L'INNOCENZA ("Monster") di Kore-eda Hirokazu | Trailer Ufficiale | Dal 22 agosto al cinema

I film di Kore’eda sono uno “stare nel” cinema, dicevo, e il cinema per lui è l’eterno racconto della famiglia e delle sue contraddizioni, contaminazioni, delle mille forme che può prendere quello che resta un solo amore, anche se a volte impossibile, non imbrigliabile in una gabbia sola. Il paragone è sempre stato col cinema – anche quello uno “stare nel” cinema – di Yasujirō Ozu, il più grande di tutti, e non è ovviamente sbagliato.

E però l’idea di famiglia di Kore’eda, sarà l’età (sua e del suo, del nostro mondo), si sta facendo di film in film sempre più imprevedibile, articolata, anche complessa. Nell’Innocenza si vede più che mai. Sembra, quella specie di caverna sepolta dalla pioggia dove s’infangano nel finale i due bambini protagonisti (non spoilero oltre), la destinazione ideale delle sue storie degli ultimi anni, quelli della consacrazione pop (diciamo così): l’immenso Father and Son (2013), i sottovalutati Little Sister (2015) e Ritratto di famiglia con tempesta (2016), e poi il definitivo Un affare di famiglia (giustamente Palma d’oro nel 2018), e il detour occidentale Le verità (2019, con mamma Catherine Deneuve e figlia Juliette Binoche), fino al pazzo e struggente Le buone stelle – Broker (2022); e dentro ci metto pure il noir, anche quello poco capito, Il terzo omicidio (2017), altro ritratto, a suo modo, di una non-famiglia che implode.

Praticamente un film all’anno, tutti collegati come puntini che formano un disegno (una società, un mondo), tutti semplici e complessi, facili e intricati, classici e presentissimi. L’innocenza, vincitore del premio per la miglior sceneggiatura a Cannes 2023 (ma perché da noi esce così tardi, e in piena estate?) è, per ora, la tappa finale. Il titolo originale, Kaibutsu, vuol dire “mostro”, e difatti qui c’è ancora più buio, più orrore quasi. Ma la destinazione, nelle famiglie di Kore’eda, nel suo “stare nel” cinema, è sempre la gioia. Scombinata, forzata, sgangherata, a volte disperata. Ma sempre, innocentemente, una ricerca della felicità.

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