Nel 1962 Loretta McLaughlin, reporter del Boston Record-American, notò un articoletto sulla quinta pagina di un giornale locale. Descriveva l’omicidio di una donna che era stata trovata strangolata nel suo appartamento. Qualcosa sembra familiare a McLaughlin, che si mette a scavare tra vecchi ritagli e trova la vicenda di una vedova pure lei strangolata in un altro quartiere. I dettagli dei crimini sono stranamente simili. La giornalista non vede l’ora di mollare la sua scrivania per mettere le mani su una storia intrigante da raccontare, anziché recensire un nuovo modello di tostapane.
Quindi McLaughlin (Keira Knightley) continua a investigare, visita distretti di polizia e bar, fa molte domande. I pezzi grossi del giornale pensano che sia troppo inesperta per questo tipo di indagine, per non parlare del fatto che è una donna! – e così le affiancano Jean Cole (Carrie Coon), una giornalista un po’ più esperta che ha lavorato sotto copertura per sventare una truffa in una casa di cura. L’idea di due giornaliste che cercano un maniaco omicida sembra una bella trovata pubblicitaria; forse si venderà qualche copia in più. Ma gli sforzi combinati di McLaughlin e Cole per catturare l’assassino, soprannominato “lo strangolatore di Boston”, alla fine porteranno all’arresto di Albert DeSalvo e all’esposizione di uno dei più famosi serial killer degli anni ’60.
O forse no, secondo Lo strangolatore di Boston (disponibile su Disney+ dal 17 marzo), il film targato Hulu che rivisita il caso – e, più precisamente, il lavoro di queste due reporter per identificare e catturare il colpevole – in nome del true crime, genere favourite della nostra epoca. Da un lato, è un tipico thriller in cui i giornalisti consumano la suola delle scarpe, dove gli aspetti meno affascinanti e più faticosi del quarto potere sono esaltati (pensate che non ci sia nulla di “sexy” nello studiare attentamente i risultati delle autopsie e le scartoffie istituzionali? Ripensateci!) e le persone che lavorano ostinatamente a una storia h 24 sono trattate come grandi eroi americani.
E McLaughlin e Cole certamente lo erano, oltre a essere madri e mogli lavoratrici che si destreggiavano tra le aspettative che venivano imposte a quel tempo, nella vita professionale e privata. È facile capire il motivo per cui Knightley e Coon sono state attratte dall’interpretare queste donne, perché entrambe sono totalmente dedite al proprio lavoro e nessuna delle due è una santa; McLaughlin continua a essere rimproverata dal marito (Morgan Spector) per i troppi impegni, e la vita domestica di Cole è, per sua stessa ammissione, un gran casino. Anche se l’assassino ancora a piede libero nel Massachusetts di solito prende di mira principalmente donne anziane, non significa che le due giornaliste non rischino grosso. Il vero spauracchio qui è quel nucleo virulento di sessismo che ha pervaso tutti gli aspetti della vita tra l’inizio e la metà degli anni ’60 e, come nel recente Anche io – She Said, il cromosoma XX aggiunge un ulteriore livello di drammaticità e pericolo a ogni svolta della trama. Woodward e Bernstein non sono mai stati costretti a negoziare situazioni di molestie in ufficio. Loro al massimo avevano a che fare con vicoli bui e soffitti di vetro.
E d’altra parte, Lo strangolatore di Boston sfrutta parecchio il fascino contemporaneo per storie sensazionalistiche, scabrose e perverse del passato, ed è qui che entra in gioco l’aspetto “e se non fosse stato lui?”. C’è un prologo piuttosto criptico ambientato ad Ann Arbor, in Michigan, e quando DeSalvo (David Dastmalchian) viene finalmente arrestato, torniamo sulla scena di quel crimine che pare troppo simile per tirare un sospiro di sollievo. Potrebbero esserci stati diversi strangolatori operanti in varie regioni, tutti con lo stesso modus operandi, e tutti riconducibili allo stesso manicomio. DeSalvo era sicuramente coinvolto; un test del Dna nel 2013 lo legò definitivamente all’omicidio di Mary Sullivan. Eppure il film continua a giocare con l’idea che quei 13 omicidi non siano stati opera di un solo uomo, ma di diversi, e sottolinea come l’insistenza di McLaughlin e Cole sul fatto che questo non fosse un caso chiuso potrebbe aver portato a un parziale errore giudiziario.
È un intrigante “what if” (cosa sarebbe successo se…, ndt), che vale la pena approfondire. Il problema però è come il film presenta tutto questo. Domanda per i direttori della fotografia: esiste un filtro specifico à la David Fincher che ti illude di essere davanti a un suo film? Ci sono molti titoli a cui lo sceneggiatore e regista Matt Ruskin potrebbe ispirarsi nella sua rivisitazione di questa storia dell’orrore in real life, dal Silenzio degli innocenti a Tutti gli uomini del presidente fino a un gruppo di altri classici della New Hollywood, ma uno in particolare continua a prevalere: Lo strangolatore di Boston vorrebbe essere lo Zodiac della città dei fagioli (o, per lo meno, un episodio minore di Mindhunter by Fincher & Co.).
Che Lo strangolatore di Boston non si avvicini neanche lontanamente a quel livello di narrazione o regia è un dato di fatto, visto che pochi film ci riescono. Eppure, nel modo in cui continua a imitare quella tavolozza visiva, sembra mirare a una scorciatoia per arrivare all’obiettivo. Peggio ancora, la dipendenza da quel tipo di immagine alla fine mina ciò che sarebbe anche buono del film: il lavoro dei suoi protagonisti (Coon è particolarmente brava); la presenza disturbante di Dastmalchian, uno dei migliori screen creeps (attori specializzati nell’interpretazione di personaggi maniaci e viscidi, ndt) su piazza; un cast di incredibili caratteristi (Alessandro Nivola, Robert Burke, Chris Cooper, Rory Cochrane, Peter Gerety); un senso palpabile della vita della classe operaia del New England che raggiunge quasi, ma mai del tutto, livelli di parodia. La fine potrebbe suggerire che il cattivo al centro di tutto non fosse il villain principale. Ma il film dimostra, senza ombra di dubbio, di essere il peggior nemico di se stesso.