L’ultima mandrakata di Gigi Proietti (neologismo introdotto dal suo personaggio in Febbre da cavallo, che indica una “trovata ingegnosa con cui si risolve una situazione difficile”) è stata quella di averci lasciato nel giorno del suo ottantesimo compleanno, il 2 novembre, il giorno dei morti: «Che ve devo dì, la data è quella», aveva tentato più volte di avvertirci. Dalle prime luci dell’alba di questa mattina il suo popolo si è riversato sui social per rendergli omaggio. A riprova della straordinaria trasversalità di Proietti, ciascuno come può: dalle condivisioni dei posti dell’Arma dei Carabinieri con l’effige del Maresciallo Rocca dei boomer ai sagaci memer del gruppo dei relatable romani, Osteria “Dar Memarolo”. Molti meme mostrano l’invincibile cavaliere nero della celeberrima barzelletta proiettiana, finalmente, fatalmente vinto. È chiaramente Gigi stesso dopo una vita da killer di noie e tristezze, che deve fare i conti col sipario.
La carriera di Proietti, partita da musicista, suonando per locali notturni romani di frontiera un repertorio multiforme e liquido, dal jazz allo stornello, nel 1970 ottiene uno slancio significativo quando partecipa al musical Alleluja, brava gente, sostituendo Domenico Modugno accanto a Renato Rascel e a Mariangela Melato. «Lì mi resi conto che si poteva coniugare il teatro ludico, divertente, con la qualità artistica: il cosiddetto teatro popolare». E non o marchette o pipponi come tanti, troppi altri. Da allora per Proietti comincia una serie che sembrava interminabile di successi a teatro (A me gli occhi, please), al cinema (Febbre da cavallo) e in televisione (Il maresciallo Rocca).
Duttile come nessun altro in tutti i campi non dello scibile ma dello spettacolarizzabile, era un one man show vivente prima ancora di organizzarne il primo che l’Italia abbia conosciuto: A me gli occhi, please, andato in scena con infinite varianti e appendici dal 1976 al 2000. Solo la versione del Teatro Olimpico di Roma accolse, nelle varie repliche, oltre 500.000 spettatori. A me gli occhi, please è la prima grande occasione che Proietti ebbe per provare a racchiudere una delle demo più complete della versatilità e della sua visione dello spettacolo: balla, imita, canta a squarciagola, canta dolcemente, pronuncia in modo comico monologhi drammatici e viceversa. Gli altri artisti hanno un’estensione vocale, Proietti un’estensione attitudinale. Non aveva il piede in due scarpe, ma in tutta una scarpiera. Attore e regista di teatro, attore e conduttore di televisione; mattatore al cinema e negli spot e nei meta-spot; e ancora pianista, contrabbassista, fisarmonicista; poeta sonettaro, fine dicitore, oratore funebre ineguagliabile, cantante, doppiatore (dal Gatto Silvestro a Marlon Brando), doppiatore-cantante, divulgatore di pièce auliche in formati popolarissimi e traghettatore di temi alla portata di tutti sulle tavole dei teatri d’élite. Ha lavorato in 33 sceneggiati-fiction-serie tv, 42 film, 51 spettacoli teatrali di cui 37 da regista. Ha pubblicato 10 album come solista e ha diretto 8 produzioni liriche.
Da direttore artistico del Silvano Toti Globe Theatre, ha donato a una Villa Borghese depressa e in disarmo la possibilità stravagante ma filologica di ospitare un teatro elisabettiano in scala 1:1, intitolato come quello preferito da Shakespeare; folie non meno eclettica del tempietto di Esculapio in stile ionico fatto costruire nel Settecento dai Borghese stessi.
I talenti e l’ispirazione di Proietti sono così numerosi e duttili che la sua dimensione artistica è una particolare, solerte variante del concetto di opera d’arte totale, in senso molto post-wagneriano, cioè non più come unione di tutte le arti conosciute in un solo teatro, ma in un solo uomo.
Sia quando raccontava davvero barzellette che quando metteva in scena Aristofane restava, in cuor suo, un barzellettiere che capivano tutti e che non solo non aveva mai bisogno di essere spiegato ma, se anche fosse stato necessario, avrebbe fatto ridere più con la spiegazione che con la barzelletta. Tale era il suo genio affabulatorio. Quando voleva far ridere di proposito, però, faceva ridere così tanto che su YouTube è nato uno specifico filone di laugh porn: quando fa sganasciare la Carrà, quando fa sorridere Mattarella. Faceva ridere qualunque cosa toccasse. Se non gli avesse fatto probabilmente schifo — e parecchio — l’espressione, potremmo dire con meno sensi di colpa che Proietti è stato uno dei nostri primi e migliori umoristi osservazionali. A sei anni, appena finita la guerra, quando lo sgomberano dalla casa pericolante di via Annia, a pochi passi dal Colosseo, con tutti i mobili ed i vestiti per strada, non vede una disgrazia ma la sua prima scenografia teatrale naturale.
Più di tutti gli altri attori romani di grande o grandissimo successo, che tendono a essere la versione formato capitale dell’italiano, amplificata e resa commestibile ai più tramite l’elezione dell’abitante di Roma a modello positivo o negativo da esaltare o da abbattere, Proietti è l’unico che è restato sempre e solo figlio di Roma e dei molti quartieri, centrali o periferici, della città che ha abitato e fatti suoi nel tempo, da via Giulia in cui nacque al Tufello dove crebbe. Spesso ci ha aiutato a trarre insegnamenti da questa sua capacità di esplorazione. Perfino quando imitava il suo professore barese di lettere al Liceo Augusto dalla Dandini, mischiandolo al bozzetto di vita, non smetteva di fare divulgazione culturale di Carducci.
Sia quando fa ribaltare la Dandini, sia quando ci fa piangere col suo bellissimo e sottovalutassimo libro autobiografico (Tutto sommato, qualcosa mi ricordo), Gigi Proietti è rimasto una voce profonda e teatrale ma saldamente ancorata alla realtà. Non è uno che, sapendo fare tutto, ha poi fatto anche teatro ma uno che, sapendo fare veramente teatro, ha poi potuto fare tutto, tra cui insegnarlo. «Non consiglierei ai giovani — e a chi li consiglia — di voler entrare nel mondo dello spettacolo, perché il mondo dello spettacolo non esiste. È fatto di mestieri, come l’attore o il ballerino. Se uno vuole fare il ballerino che studi per fare il ballerino, sennò avremmo tanti ballerini a metà. Sarebbe meglio averceli tutti interi», dichiarò in una puntata di Superquark in cui perfino Piero Angela si trovò costretto a riconsiderare i confini della scienza e ad abbracciare, come meglio potè, i misteri della comicità.
Erede naturale di Ettore Petrolini e nonno innaturale di mezza comicità italiana contemporanea, per Proietti il ruolo più difficile è stato quello del formatore. Per lui non si trattava semplicemente di tramandare un mestiere alle nuove generazioni, ma di spedirli a suon di spieghi e cazziatoni un mondo che non c’era più. Le sue lezioni di teatro erano poco teoriche e praticissime, senza un metodo preciso. Fin dai tempi dell’università aveva preferito l’alternativa del Centro Teatro Ateneo all’Accademia Silvio D’Amico e seguì questo istinto anche quando, dal ’78, diede vita al suo Laboratorio di Esercitazioni Sceniche in una sala prove del Teatro Brancaccio. Da lì, nel tempo, verranno fuori talenti come Massimo Wertmüller, Pino Quartullo, Francesca Reggiani o Giorgio Tirabassi.
Ma forse la sua lezione più importante in assoluto è stata quella di non restare in equilibrio, più o meno precario, come tanti suoi colleghi hanno fatto, per necessità o calcolo, tra cultura alta e bassa. Proietti le ha di fatto fuse in una. Ha dimostrato con un numero strepitoso di esempi che la tecnica e anche il talento, per un uomo di spettacolo, sono forze secondarie rispetto a una motivazione più interiore, che è la voglia non solo di condividere, ma di convivere col pubblico. Fino a fondere anche vita e arte in una sola sceneggiatura unitaria: «Ringraziamo Iddio, noi attori, che abbiamo il privilegio di poter continuare i nostri giochi d’infanzia fino alla morte, che nel teatro si replica tutte le sere».