Cinque anni fa, una nuvola rosa passava sul Lido. Le piume Valentino di Lady Gaga, certo, ma insieme a loro quell’onda mélo sospinta dall’opera prima di Bradley Cooper, che prendeva uno “standard” della tradizione cinematografica americana (È nata una stella) per farne un instant classic della contemporaneità che al cinema ci va poco o niente (quel film invece incassò più di 400 milioni di dollari nel mondo). Seppur non privo di difetti, A Star Is Born, di cui non posso dirmi fan, era un esordio sincero e, cosa che invece apprezzo assai, fieramente pop.
Così è Maestro, l’opera seconda di Bradley Cooper arrivata in concorso a Venezia 80 senza Bradley Cooper causa solito sciopero (ma, riporta l’autorevole Gazzettino, l’attore/regista è venuto al Lido in gran segreto il weekend prima dell’inizio della Mostra, per una prova in sala del suo film). Un’opera altrettanto sincera e soprattutto pop, che pare ormai l’intenzione e la strada prese dall’autore, e stavolta a loro modo decisamente più compiute.
Maestro è, lo sapete, il biopic di Leonard Bernstein, il primo vero direttore d’orchestra americano, e pure autore di classici pop (guarda un po’) come West Side Story. È un anti-TÁR, o un post-TÁR, anche per come sceglie di raccontare la figura del creativo/creatore che nel privato invece non fa altro che distruggere, e distruggersi. È “anti” anche nella struttura: del film con Cate Blanchett, Coppa Volpi a Venezia lo scorso anno, mantiene l’andamento “sinfonico” e spezzato solo nella prima parte, per poi diventare un mélo (aridaje) molto più tradizionale, forse anche convenzionale. Ma ormai la cifra di Cooper pare, appunto, arrivare a più pubblico possibile, anche con un film (e un soggetto) fortemente che si pone come profondamente classy.
È, Maestro, soprattutto la storia di un matrimonio, quello fra Bernstein (lo stesso Cooper con naso appena un po’ accentuato per farlo giustamente somigliare all’originale: ma lo stupido tribunale di Twitter, o X che dir si voglia, ha urlato: jewface!) e la moglie Felicia Montealegre (Carey Mulligan, che dopo la Emma Stone di Poor Things prenota anche lei un Oscar); una donna che ha dovuto metter da parte la carriera d’attrice e l’appagamento di amante (o forse no) perché nella stanza ci poteva entrare solo lui, Leonard, con la sua doppia vita nemmeno segreta (gli amanti uomini erano noti a tutti, lei per prima), e il suo bisogno, consapevole o meno, di distruggere per creare, appunto.
Cooper e Mulligan funzionano molto bene, c’è fra loro un’alchimia che fa pensare ai film un po’ dimenticati della supercoppia Paul Newman-Joanne Woodward, e anche la regia – soprattutto nella prima parte – guarda a quel cinema lì, drammi domestici di grandi vite sbirciate nel piccolo, in bellissime case di campagna East Coast, sale da concerto brutaliste, appartamenti che guardano su avenue newyorchesi su cui passa la parata, ma la festa resta sempre fuori dalla finestra.
Dopo A Star Is Born, Cooper prosegue nella sua indagine sul musical, anche se questo film ovviamente non lo è (c’è solo una scena che riprende i balletti di Gene Kelly in On the Town), anche se (volutamente?) a restare fuori è anche il musical più famoso di tutti, West Side Story: c’è appena un accenno, qualche nota, come a dire che non serve, sappiamo tutti cos’è, e perché è quello che è.
Cooper cerca la strada dei grandi classiconi pop, dicevo. Steven Spielberg (che inizialmente avrebbe dovuto dirigere Maestro) e Martin Scorsese (che in quanto a indagini musicali ha una storia alle spalle che non vi devo ricordare) sono qui i suoi produttori. Bradley ha l’intelligenza e l’umiltà di seguirli e però mettersi da parte, di provare a fare un cinema suo, coi suoi pregi e i suoi limiti. Un cinema sincero, che forse proprio nella sua natura fieramente pop trova il suo essere “d’autore”.