Isabella Rossellini mi ha detto (parafraso): “Se vuole farmi una domanda sui miei genitori la faccia direttamente, i giornalisti italiani fanno sempre mille giri per chiedermi di mamma e papà”. E io gliel’avrei chiesto direttamente senza indugi, se non fosse che di mamma e papà (quella mamma e quel papà) aveva già parlato prima lei. Perché i “figli di” (oggi li chiamano nepo baby) che sono sicuri di sé non hanno problemi a parlarne, ma solo gioia – tranne Lily-Rose Depp, che non so se non è sicura di sé, ma ricordo un momento bellissimo a Cannes parecchi anni fa: alla domanda di un giornalista tedesco su Johnny e Vanessa si alzò e se ne andò, quel connard.
I “figli di” alla Rossellini, anzi, sono i primi a mettere le mani avanti. In un delizioso corto intitolato Mio padre ha 100 anni, Isabella s’acconciava con il pancione di papà Roberto e le onde nei capelli di mamma Ingrid, e a una che fa così cosa potrai mai dire, ha già detto tutto, ha già vinto tutto. Quest’anno cent’anni li avrebbe compiuti Marcello Mastroianni, e sul tema – l’ossessione per gli anniversari più nostra che per la gente vicina a quei morti; esattamente come quella per le parentele – la cosa più intelligente l’ha detta di recente Catherine Deneuve: “Per me non vuol dire nulla, Marcello non li ha avuti cent’anni”.
L’anniversario resta però uno spunto per Christophe Honoré, regista molto festivaliero a volte poco compreso anche dai festivalieri stessi, per un’operazione – Marcello mio, in concorso a Cannes e nelle sale dal 23 maggio con Lucky Red – che non assomiglia a nessun’altra, un biopic che non lo è e quindi forse lo diventa più di molti altri, un po’ psicanalisi un po’ supercazzola però molto chic, con tanta testa e soprattutto tanto cuore. E, soprattutto, la risposta che mette a tacere tutte le cretinissime polemiche sui nepo baby, dalla copertina del New York Magazine al figlio di Amadeus.
In breve: Chiara Mastroianni, protagonista (bravissima e spericolata) di questa storia che è la sua solo ampiamente reimmaginata, un giorno si sveglia e allo specchio vede quello che abbiamo sempre visto tutti: “Cazzo, ho la faccia di mio padre!” (parafraso ancora). Mamma Catherine, anche lei as herself (e anche lei bravissima e spericolatissima), borbotta: “Non hai solo Mastroianni nel tuo viso, c’è anche un po’ di Deneuve”. Ma non basta: da quel momento, Chiara decide che è suo padre e così si presenta, si abbiglia, va persino da Nicole Garcia, che sta facendo i casting per il suo prossimo film, convincendola a riscrivere il ruolo, non più amante donna del protagonista (uno spassoso Fabrice Luchini) ma amico uomo.
“Tutto ciò che c’è di buono nella vita è ereditato”, dice Luchini citando Nietzsche, ed è il motivo per cui, ai figli di, ho sempre fatto la domanda. Perché quel tipo di eredità è un privilegio per loro, prima che una fonte d’invidia per noi. Per fare un esempio da questo film: mamma e figlia tornano nel vecchio appartamento, si stendono sul pavimento con l’orecchio contro il parquet, e la seconda domanda alla prima: “Ti ricordi quando sentivamo cantare la Callas che abitava qui sotto?”. Noi avevamo il vicino che starnazzava nel flauto delle medie.
Ma a Honoré non interessano i pettegolezzi (da quelli se mai siamo ossessionati noi, aridaje), e mette in questo film pieno di leggerezza autoconsapevole – dell’autore, dell’attrice – anche un po’ di quella mélancolie dei suoi film più dolorosi (i recenti, e purtroppo un po’ inosservati, Plaire, aimer et courir vite e Winter Boy – Le lycéen, quest’ultimo da noi è su MUBI). C’è un’aria di morte gioiosa, che non appartiene a chi non c’è più (“non li ha avuti cent’anni”), ma ai vivi. Deneuve dice (parafraso sempre): “Nessuno si ricorderà di noi. Neanche di noi che facciamo questo mestiere. Magari resteranno i nostri volti nei film, ma si dimenticheranno di chi siamo stati davvero”, ed è qui il senso di tutto, e di niente.
In questa leggerezza dolorosa c’è anche il musical, quello di Les chansons d’amour, uno dei film più belli di Honoré e per fortuna capiti (comunque un po’ dopo). Marcello mio è una chanson d’amour fatta però di fantasmi: Marcello che canta Eros Ramazzotti (!), Marcello che fa cantare il cane in una trasmissione tv italiana (feat. Stefania Sandrelli) come ai tempi in bianco e nero di Mina, e Catherine che canta la fine, alla fine.
Marcello mio è un film scombinato a cui non si può non voler bene, a metà tra Effetto notte e una puntata di Chiami il mio agente!, e però continuamente depistante, abbagliante. C’è Fellini sulla spiaggia (ma di Formia) e Meloni al governo, i cocker che seguono vecchi frack nelle notti bianche parigine, il whisky anche a pranzo, gli orecchini rubati alle madri e i baffi rubati ai padri, l’italiano per non farsi capire dagli altri, Anita nella fontana e le foto di Sophia in salotto, i pattini e la “polpetta”, gli amici da chiamare in piena notte come in quel vecchio film di Leconte, Parigi e Roma, il maschile e il femminile, le mamme, i papà, le figlie, i figli, di chi non importa, siamo tutti uguali – seh, ci piacerebbe.