‘Maria’, la recensione del film di Pablo Larraín con Angelina Jolie | Rolling Stone Italia
Vissi d’arte, vissi d’amore

‘Maria’ e Angelina, due dive a pezzi

Il “falso biopic” della Callas firmato Pablo Larraín in concorso a Venezia 81, ultimo capitolo della trilogia di cui fanno già parte ‘Jackie’ e ‘Spencer’, è la decostruzione di un’icona. Anzi, due: perché c’è anche Jolie (bravissima) al centro di questo elegante ‘character study’

‘Maria’ e Angelina, due dive a pezzi

Angelina Jolie è Maria Callas in ‘Maria’ di Pablo Larraín

Foto: The Apartment Pictures

Maria vede Onassis, di notte, nel suo letto. Ma Onassis è morto da un pezzo. Vede troupe televisive che la vogliono intervistare, cori che cantano arie d’opera sotto la Tour Eiffel. Vede la sua proiezione, forse quello che è già il suo fantasma. O forse, finalmente, vede sé stessa. Anche Pablo Larraín vede Maria, nel senso che è proprio una visione, la sua. Come Jackie, come Diana. Ma Maria, l’ultimo capitolo, in concorso a Venezia 81, di questa sua trilogia su tre icone femminili del ’900, è ancora più radicalmente una decostruzione, una demistificazione, quasi uno sberleffo al genere più abusato probabilmente di sempre, certamente degli ultimi anni: il biopic.

Di Maria Callas c’è tutto il repertorio, in senso ovviamente anche letterale. C’è tutto il “vissi d’arte, vissi d’amore” tra palco e realtà, e il gossip, la magrezza, le pillole, il Fernet-Branca. C’è tutto già nel primo montaggio: i grandi successi, le foto in barca col miliardario greco, i vestiti di scena bruciati quando, forse, decide che è arrivata la calata del sipario. Come a dire: esauriamo tutto ciò che chiunque ha già detto o continua a dire su di lei e la sua iconografia (tra le ultime in ordine di tempo, Monica Bellucci e Marina Abramović) e proviamo a fare qualcos’altro.

Nella fattispecie: un character study più che su una donna sull’arte, che diventa il vero personaggio pubblico e privato, il demone da cui è impossibile separarsi. Nell’opera lirica la ragione non esiste, fa dire a Maria il bel copione di Steven Knight (lo stesso di Spencer, Jackie invece era scritto da Noah Oppenheim). E ci sono poche ragioni anche in questo film che mescola corpi e fantasmi, melodramma e ironia (l’intervista, già impalcatura narrativa di Jackie, è il flusso di auto-coscienza di un’impasticcata), la solita eleganza formale (la fotografia è del gigante Ed Lachman) e il kitsch (ma del resto l’opera lirica non lo è per definizione?), real estate porn e feticismi vari – l’appartamento-museo in cui vive stava sopra quello dei Mastroianni, abbiamo scoperto nel delizioso Marcello mio quando mamma Catherine Deneuve e figlia Chiara Mastroianni vanno a visitare la loro vecchia casa; dal camino saliva la voce di Maria, dicono a favor di esplosione di cervello nostra.

Ed è, Maria, un character study naturalmente non su una, ma su due dive. Callas e Jolie. Angelina è troppo Angelina, ebbe a dire (più o meno) Clint Eastwood quando la diresse in Changeling, un bel film in cui era molto brava, e per cui ebbe una nomination all’Oscar. Non era una critica: intendeva che una faccia così, un personaggio (pubblico e privato) così, è sempre molto presente, troppo presente. Non lo puoi separare dal personaggio. Angelina resta Angelina, in questo film. Si camuffa poco. Il naso è ingobbito appena, l’accento giusto un poco sporcato. È diva pari a colei che mette in scena, perciò può permettersi di non scimmiottarla.

E poi però Angelina scompare, in questa specie di specchio in cui casca dentro, come nel paese delle meraviglie. Angelina ha studiato canto per mesi, la voce che si sente nel film è quella originale della Callas ma anche, almeno un po’, la sua. Però non c’è Metodo, piuttosto quasi una richiesta di sottrazione. Di questa decostruzione del divismo sembra far parte anche uno smantellamento della propria figura pubblica, o quantomeno di come la donna, l’attrice, la madre, l’attivista, la regista viene percepita.

Il formidabile cileno ha creato con questi tre titoli una specie di Larraín Cinematic Universe. A un certo punto, causa Onassis, viene citata Jackie Kennedy, e ci si chiede se spunterà Natalie Portman. Non succede, ma restano altre suggestioni, altri rimandi da testo a testo. La dinamica servo/padrone, ad esempio, già presente nel precedente El Conde, a Venezia l’anno scorso, un altro falso biopic che giocava su un genere (l’horror di vampiri) per smontarlo, quasi addirittura sabotarlo. Qui ci sono il maggiordomo Pierfrancesco Favino e la domestica Alba Rohrwacher, molto giusti e molto bravi, a fare la parte del pubblico di Maria, sempre compiacente ma anche teneramente inerme di fronte a questa divina, a questa donna sovrumana/troppo umana.

C’è il teatro nella mia testa, dice sempre Maria, ed è un palcoscenico anche questo film, dalla prima all’ultima scena, dove le quinte si aprono e si chiudono per mostrare, come dice il medico tapino che la Callas mette costantemente alla porta, che è tutta una questione di vita e di morte, ma che a teatro la vita e la morte coesistono sempre, sono finte, sono verissime.