5 agosto 1962. Forse basterebbe la data. Come 23 novembre 1963. 11 settembre 2001. Quei momenti fissati nella Storia. Non è eresia confrontare la morte di Marilyn Monroe con l’assassinio di JFK o l’attentato alle Torri Gemelle. Per chi c’era sessant’anni fa, vale la domanda che faceva Billy Crystal alla giovane fidanzata in Harry, ti presento Sally: “Dov’eri quando è morto Kennedy?”. Lei rispondeva: “Il senatore Ted Kennedy è morto?”. Molti si saranno chiesti a vicenda “Dov’eri quando è morta Marilyn”, il cognome era superfluo, e quando si arriva a un anniversario tondo la celebrazione rischia sempre di diventare profanazione, soprattutto attorno a un’icona la cui vita intrecciò l’essenza stessa dell’America degli anni Cinquanta e Sessanta.
La Stella che fece coppia con il Diamante, la Monroe e Joe DiMaggio, il cinema e il baseball, il Sogno Americano che, come gli eventi hanno insegnato, si infrange con precisione molto svizzera. E poi l’attrice e il drammaturgo, Arthur Miller, che insieme avrebbero potuto scrivere pagine indelebili nella cultura contemporanea e il cui lascito letterario più celebre sono stati i documenti del divorzio. E infine la fidanzata d’America e il Presidente, JFK stesso, un corto circuito che più cinematografico non si può, fermo restando che si è più vicini a The Manchurian Candidate che a una commedia romantica ambientata alla Casa Bianca.
Si potrebbe continuare all’infinito parlando della vita, degli amori e delle gesta di Marilyn Monroe, sempre con il dubbio di non sapere mai la verità. E, in questa ennesima celebrazione della morte dell’unicorno (Peter Bogdanovich avrebbe titolato così il suo libro su Dorothy Stratten, non a caso), è particolarmente interessante fare un salto in libreria, per poi prepararsi all’evento cinematografico a lungo atteso che il 23 settembre sarà a disposizione degli abbonati di Netflix, dopo l’anteprima mondiale in concorso alla 79esima Mostra di Venezia.
Blonde si intitola il film, lo sanno probabilmente anche le più sperdute tribù dell’Amazzonia ormai, e a dare corpo, anima e voce a Marilyn è l’attrice del momento, Ana de Armas, spagnola nata all’Avana, Cuba, latina fino al midollo che, dicono, sia stata una perfetta californiana con alle spalle un’infanzia e un’adolescenza terribili. Come racconta Anthony Summers in Dea – Le vite segrete di Marilyn Monroe, quella che viene considerata la biografia definitiva della diva, che tornerà sugli scaffali proprio il 5 agosto edito da La nave di Teseo. Summers, guarda caso, ha scritto anche un libro sul complotto che portò all’omicidio Kennedy e una corposa inchiesta sugli eventi che portarono all’11 settembre, confermando la tesi di cui sopra. Dea ha alle spalle un lavoro di ricerca monumentale, con oltre seicento interviste necessarie a confrontare le dichiarazioni, verificare le fonti, intrecciare il pubblico e il privato.
Il tutto impreziosito ulteriormente da un’analisi lucidissima di tutto quello che accadde nei giorni e nelle ore precedenti alla morte dell’attrice. Le conclusioni di Summers è giusto scoprirle leggendo questa biografia, che è appassionante ma anche morbosa e compassionevole; e che, come la vita cinematografica di Marilyn, si snoda tra diversi generi, dal melodramma alla commedia, fino al thriller e alla fantapolitica. E nonostante tutto, questo poderoso tomo di 640 pagine non riesce a dare la risposta all’unica domanda che tutti si fanno da sessant’anni: chi era Marilyn Monroe?
O almeno chi era Norma Jean Baker, o Norma Jean Dougherty, o Norma Jean Mortenson, che è invece quello che si è chiesta Joyce Carol Oates mentre scriveva Blonde, il romanzo ispirato alla vita dell’attrice da cui è tratto il film di Andrew Dominik. La ricerca viene qui sostituita dall’immaginazione, e il risultato è la composizione di una Personal Marilyn, citando i Depeche Mode, il simulacro della Diva secondo l’autrice e che ogni persona che ha amato la Sugar “Kane” Kowalczyk di A qualcuno piace caldo o “la Ragazza” di Quando la moglie è in vacanza ha costruito di lei nel corso degli anni.
Entrambi i film qui citati sono firmati da Billy Wilder (che è uno dei sinonimi di “Cinema” che trovate nel dizionario), che di Marilyn diceva a Cameron Crowe, nel magnifico libro intervista del regista di Almost Famous: «Qualunque cosa facesse la stampavamo ed era molto, molto buona. Aveva una specie di innata, elegante volgarità che ritengo fosse molto importante. E capiva subito dov’era la battuta. Non la discuteva mai. Alla prima prova era già assolutamente perfetta. E aveva paura della camera e la amava. Qualunque cosa facesse, dovunque lei fosse, c’era sempre questa sensazione, e lei non se ne rendeva conto». Sempre Wilder disse che «il mio dottore, il mio analista e il mio commercialista mi hanno detto che sono troppo vecchio e troppo ricco per passare ancora una volta attraverso tutto questo», riferendosi alla lavorazione di A qualcuno piace caldo. Ma sapeva benissimo che il gioco valeva la candela.
Sessant’anni. Trentacinque quelli che sono passati dalla morte di Elvis, celebrato anche lui quest’anno con lo sfarzo che solo un film di Baz Luhrmann può offrire allo spettatore. E anche se non è un anniversario tondo, il 30 ottobre saranno 48 anni dal Rumble in the Jungle, l’epico incontro tra Muhammad Ali e George Foreman a Kinshasa, raccontato in quello che è probabilmente il più bel documentario sportivo di sempre, Quando eravamo re (When We Were Kings) di Leo Gast, e in un libro anche questo straordinario, The Fight, resoconto giornalistico firmato da Norman Mailer che sfiora le vette del genere toccate dal maestro Ring Lardner, il vate di tutti quelli che vogliono scrivere delle gesta epiche degli atleti. Anche The Fight sarà di nuovo in libreria il 5 agosto, non a caso.
Marilyn, Elvis, Ali: leggende di un mondo che fu e la cui celebrazione in questo momento storico è significativa, al di là del calendario. I film, la musica e le danze sul ring sono monetine di Woodrow Wilson (chi non ha mai letto Jack Finney è pregato di rimediare immediatamente, anche sotto l’ombrellone) che ci trasportano in un passato di cui evidentemente si sente il bisogno e che forse ci aiuta a rendere migliore un presente molto cupo, come d’altronde erano quegli anni. Se dopo sessant’anni siamo ancora qui, allora magari è vero che sarà la bellezza a salvarci.