Scene da un matrimonio che si sta sgretolando, anche se l’amore è ancora lì a fare da fondamenta, sempre. Vi sfido a non commuovervi (e poi ridere e commuovervi di nuovo) davanti a Marriage Story (dal 17 novembre al cinema e dal 6 dicembre su Netflix), non c’è riuscito nemmeno il regista e sceneggiatore Noah Baumbach. Perché a volta bisogna aspettare che qualcosa si rompa per capirla davvero, bisogna arrivare a divorziare per comprendere a fondo se stessi e la propria relazione.
Per Baumbach, quello che tra le altre cose ci ha regalato gioiellini come Frances Ha e The Meyerowitz Stories, «avere a disposizione due attori come Scarlett Johansson e Adam Driver, che si perdevano nella storia ma allo stesso tempo erano in pieno controllo, è stato un privilegio. Erano come l’eroina, quando tornavano in camerino facevo fatica a staccarmi da loro». Scarlett e Adam sono sempre assurdamente bravi, belli e impossibili certo, ma qui umanissimi. Lei è un’attrice di LA che ha rinunciato al cinema per seguire lui, regista teatrale, a New York. «Credo che il lungometraggio racconti bene le circostanze di un rapporto, l’intimità e il punto di rottura. Nicole, il mio personaggio, capisce per prima che entrambi stanno morendo in quella relazione, sceglie se stessa, vuole essere riconosciuta per il suo lavoro. E questo li porta alla separazione». Scarlett abbassa la testa, accenna un sorriso timido: «Il film ha coinciso con un momento molto personale per me, durante la preparazione anche io stavo divorziando, ma Noah all’inizio non lo sapeva».
Baumbach ovviamente adora il più celebre film sul divorzio, Kramer contro Kramer, ma racconta di essersi ispirato a Persona di Ingmar Bergman «per il ritratto dei personaggi, per il modo in cui si muovono nello spazio e per come il regista li inquadra. Sapevo che i primi piani sarebbero stati essenziali».
Marriage Story inizia con due montaggi in cui i protagonisti rispettivamente spiegano cosa amano del partner. Ma il passo da “La amo perché…” a “Vorrei vederti morta” è breve. Ed è qui che la dramedy romantica diventa quasi un procedurale: «Il sistema giuridico che gestisce i divorzi per natura tende a dividere anche con una certa violenza, ma io volevo trovare la storia d’amore nella separazione».
E quel sentimento, quell’affetto, quella compassione ci sono persino nella scena più dura del film, in cui i protagonisti discutono selvaggiamente: «Avevamo due giorni per girarla», dice Adam Driver. «Le sceneggiature di Noah sono scritte benissimo e in maniera concisa, non abbiamo cambiato molto. Tecnicamente è stato come recitare in uno spettacolo a teatro». La dimensione del palcoscenico fa parte del DNA del film: a un certo punto Driver, nel corso di una serata tra amici, canta Being Alive, tratto dal musical Company di Stephen Sondheim.
D’altra parte il divorzio stesso è qualcosa di molto teatrale: c’è il giudice, ci sono le parti coinvolte, i mediatori e gli avvocati. A proposito, un consiglio: se volete separarvi, assicuratevi di fare una telefonata a Laura Dern. Il monologo dell’avvocato ambiguo e manipolatore che interpreta nel film sulla complicata visione della maternità (e sulla necessità per le madri di essere sempre perfette, al contrario dei padri) è già cult.