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Marta Savina e ‘Primadonna’: «Voglio raccontare tutte le donne. Anche le rompicoglioni come me»

«Voglio contrastare la rappresentazione delle donne solo se sono buone e positive». Ma anche: «Il MeToo rischia di essere la morte di qualsiasi tipo di vera rivendicazione». Intervista con una regista (e basta) che non vuole strumentalizzare la storia di violenza e riscatto che racconta. E che vuole dire tutto

Foto: Capri Entertainment

Tutto e il contrario di tutto ciò che sembrerebbe essere. «Voglio morire da rompicoglioni sul set»: questo è il finale con il botto che sogna per sé. «Però una rompicoglioni simpatica». E in effetti lo è, lo è sempre stata e probabilmente con questo film lo sarà ancora di più. Però si è fatta furba, Marta Savina, che quando si tratta di cinema e femminismo non tira in ballo slogan, manifesti o soffitti di cristallo. Anzi. Primadonna (nelle sale dall’8 marzo) non è un trattato di genere – chiarisce lei – né un film fatto dalle donne per le donne. Frusciante entra davvero nel gruppo mentre se ne tira fuori. Con la sua opera prima ribalta le aspettative e parla del femminile senza pontificare, senza puntare il dito, senza indugiare su facili dolori. Piuttosto semina indizi sibillini, mostra e non dice, poi dice e non mostra, riduce il dramma all’osso, racconta carnefici irresistibili (Dario Aita) e vittime antipatiche (Claudia Gusmano). Il sospetto parte già dal titolo: Primadonna, appunto. Come la prima a metterci la faccia, certo – in questo caso ad aver rifiutato un matrimonio riparatore nella Sicilia degli anni Sessanta – ma anche come colei che ha manie di protagonismo. A volte saccente, non sempre gradita, e non perché donna, ma perché oggettivamente non sempre gradevole. «L’ho voluto fortemente, per contrastare quella che sta diventando una retorica: le donne le rappresentiamo solo se sono buone e positive. No, Lia è una rompicoglioni come me».

Anche questa, però, è un’arte che va disciplinata, e infatti Savina mi cita Guccini: ci vuole scienza e costanza ad invecchiare senza maturità. Qualcosa è cambiato dai tempi della sua Los Angeles pre-MeToo, quand’era tra i talent della CAA, quando per certi versi il caso Weinstein ha travolto anche il suo lavoro, quando qualsiasi storia diretta da una-regista-donna-a caso valeva un investimento. Ed è lì che, invece, è stata lei a scegliere su cosa investire. Fino a tracciare un confine anche tra il film con cui debutta ora e il cortometraggio dalla quale partiva nel 2017, che chiamava direttamente all’appello la storica vicenda di Franca Viola. Savina ha capito quando, e soprattutto come, veicolare un’opinione inevitabilmente politica: «Perché sennò perdi di credibilità, nessuno ti ascolta più. E credo che a maggior ragione per una donna, questo confine sia sottilissimo. Io ti dico che è una lotta costante e quotidiana, che ogni tanto mi stanca molto ma altre volte mi diverte pure».

Primadonna esce l’8 marzo (lei già ride, nda). Io ho alzato un po’ il sopracciglio, tu?
Guarda, io è da quando ho undici anni che riesco ad alzare il sopracciglio, pensa quanto mi sono esercitata. È il muscolo più sviluppato del mio corpo. Per tornare seria, invece, comprendo qualsiasi logica promozionale pensata a buon fine, e il fine del film è quello di essere visto dalle persone. Detto questo, spero che non venga strumentalizzato, perché c’è stata una mia volontà molto ferma di non renderlo un manifesto.

Secondo me ci sei riuscita. Hai fatto l’opposto di quello che ci si aspetterebbe.
Grazie, lo spero anch’io. Capisco che questa vicenda sarà sempre intrinsecamente politica, ed è ovvio che mi abbia interessata anche per questo. Però non è un trattato. È una storia di persone in carne ed ossa.

Non ti sei neanche lasciata sedurre dalla polemica.
E io sono una persona molto polemica.

La regista Marta Savina sul set del film. Foto: Capri Entertainment

Ora ci arriviamo. C’è questa doppia vita nella tua filmografia: debutti con un’opera prima che è anche una storia politica, e intanto entri ed esci dalla serialità teen (prima con Summertime, presto con Un’estate fa). C’è qualcosa che ti richiama verso l’adolescenza?
Un’estate fa sarà meno teen di Summertime, ma sì, l’adolescenza c’è. Io credo che se provo sempre a tornare lì, è perché c’è una cosa nella mia vita che si è spezzata lì. Quando avevo sedici anni è morto uno dei miei più cari amici in un incidente di motorino. La mattina era in classe e la sera non c’era più: è qualcosa che mi ha mandato in tilt, ma poi la tragedia mi ha insegnato a stare in piedi sulle mie gambe. L’adolescenza è un posto in cui ho perso qualcuno, insieme alla mia spensieratezza e a quel sentirsi invincibili. Ne sono uscita più consapevole, ho capito sin da giovane di essere una persona che si sa rialzare.

Per questo vai a cercarti lo schianto?
Totalmente. Penso che a un certo punto valga tutto, soprattutto nell’arte. Sono cresciuta come violinista professionista, a sedici anni lavoravo e facevo concerti in giro. Ma quello è un mondo fatto di regole, o bianco o nero, soprattutto con il violino: o metti bene il dito, o sei stonato. O vai a tempo, o vai fuori. A un certo punto il mio cervello non riusciva più a concepire che l’arte potesse essere così rigida, nella musica classica non c’era spazio per la creatività che invece ho poi trovato nella fotografia e nel cinema. Per un momento, tornando in Italia dall’America, ho rischiato di scordarmi che i film non si fanno per farli bene, ma per scoprire qualcosa. Se cerchiamo solo di farli bene ci perdiamo, e il cinema si ferma. Ecco, io nella musica non tolleravo di sbagliare. Non l’amavo abbastanza da rimettermi in gioco e sperimentare.

In America, tra collaborazioni con James Franco e Francis Ford Coppola, c’è stato anche qualche Studio interessato a produrre la tua opera prima. Hai declinato. Quanto ti è costato farlo?
Tantissimo, come costano tantissimo i grandi amori. E poi ogni giorno mi sveglio e mi manca Los Angeles, gli anni trascorsi lì sono stati la mia era del cinghiale bianco. Ma ogni volta che sento il dialetto siciliano parlato nel mio film, capisco che ho fatto la scelta giusta. Non poteva essere girato con un grande attore italo-americano – di cui non ti faccio il nome – che faceva il contadino nella Sicilia degli anni Sessanta (poi il nome me lo fa; non lo scriverò, ma sappiate che non stava esagerando, nda).

Primadonna nasce nel 2017 come cortometraggio (Viola, Franca) e già nel titolo palesavi il riferimento alla storia vera che ti ha ispirato. Quando hai capito che, invece, il film doveva diventare la tua storia inventata su una Lia qualunque?
Pochi mesi prima di girare. Non sentivo mia l’idea di un film biopic, ma soprattutto facevo fatica a superare i limiti della sceneggiatura dovuti a una sorta di riverenza nei confronti di Franca Viola. Purtroppo, per scrivere una buona sceneggiatura, il tuo personaggio lo devi massacrare.

Massacrare tipo?
Per farlo andare avanti nella storia gli devi mettere davanti la sua paura più grande. Qual è la cosa peggiore che può capitare a questa persona, rispetto al suo carattere? Questa: e allora bam, gliela devi dare. Naturalmente mentre scrivi ti identifichi anche col personaggio, quindi diventa un rapporto un po’ sadomaso. È la stessa cosa che è successa a me nella vita: paradossalmente se non avessi vissuto una delle cose più terribili, cioè scoprire a sedici anni che non sei immortale e non sei ’sto cazzo, che puoi morire dalla mattina alla sera in un evento che non ha nessun senso, non avrei mai capito di essere la persona che sono. Ed è crudele farlo vivere anche al tuo personaggio. Ecco, con Franca Viola avrei avuto delle riserve.

Qui Dario Aita – forse il mio preferito della sua generazione – è stata la scelta migliore che potessi fare, perché ci chiedi uno scatto in più: rinunciare ad innamorarci del personaggio e accettarlo come carnefice. Voglio dire, avresti potuto scegliere un viscido qualsiasi, e invece costruisci una coppia da sogno.
Per me era fondamentale. Quando abbiamo iniziato i casting sono andata da Francesco Vedovati, Sara Casani e Marta Mancuso (tre direttori di casting, nda) e ho detto: “Voglio raccontare questa storia. La vittima per me è Lorenzo: vedete che dovete fare”. Devo ringraziarli per aver sposato questa mia lettura. È ovvio che Lorenzo sia il carnefice ma, nell’ottica di non fare un film manifesto, Lia doveva provare un’attrazione motivata per lui. Primo, perché penso sia una donna intelligente e quindi non si sarebbe mai innamorata di un viscido; poi, perché dire di no a un viscido è facile. Infine, perché credo che raramente il male sia eclatante. Piuttosto è strisciante e non si fa riconoscere subito. Soprattutto, Lorenzo non sa di essere il male, lui fino all’ultimo crede di essere il bene. Fa qualcosa che per lui è naturale, e in questo senso è vittima di un sistema.

Claudia Gusmano con Fabrizio Ferracane. Foto: Capri Entertainment

Fermiamoci sulla volontà di non farne un manifesto: per te questo non è un film destinato alle donne, giusto?
No, perché le donne lo sanno benissimo. Questo invece è un film per gli uomini, e nessun uomo potrebbe mai riconoscersi consapevolmente in un viscido. È tutto molto più complicato di così. Dario penso sia un attore straordinario, molto affascinante, e ho amato lavorare con lui. Ha un magnetismo in macchina incredibile, e accanto a Claudia sono partite le scintille. Ti devono girare le palle quando capisci come si evolvono le cose tra loro. Se ci pensi, anche Lia è un personaggio controverso e non sempre simpatico. Volevo fosse così, perché stiamo andando incontro al rischio di raccontare le storie al femminile solo se sono eroine, se sono forti e se hanno alterato il corso dell’umanità. Ma le donne deboli e antipatiche le vogliamo raccontare? Di uomini infami e psicopatici ne raccontiamo tantissimi. La parità è questa, eh: sta nella pluralità. Adesso sto scrivendo il prossimo film, si occupa sempre di maschile e femminile, ma la sfida è che il personaggio maschile è l’eroe e quello femminile l’antagonista. Voglio che empatizziate con lei, una narcisista da manuale.

Sei particolarmente attaccata alla scelta – azzeccatissima, di nuovo – di Claudia Gusmano.
Perché Claudia ha esattamente questa qualità: la ami e ti sta antipatica nello stesso tempo. Ti irrita, però non puoi fare a meno di volerle bene. Ha una grande gamma di sfumature, è un cavallo matto, e d’altronde anche per fare quello che ha fatto Lia devi esserlo. L’ho conosciuta ai provini del cortometraggio ed è stata una folgorazione. Era palesemente l’attrice che stavo cercando. Per il lungometraggio ce l’ho sempre avuta in testa, ma prima di confermarla abbiamo fatto molti altri provini, sia per Lia che per Lorenzo. Alla fine non c’era proprio niente che si potesse paragonare a Claudia, a Dario, e soprattutto a Claudia e Dario insieme.

L’innamoramento: c’è una bellissima scena in slow motion con Thom Yorke in sottofondo, l’unico piccolo virtuosismo di regia che ti concedi. Forse se non l’avessi girata in quel modo, non avrei creduto a tutto quello che succede dopo.
Ho scritto quella scena dopo averla vista nella mia testa: c’è sempre stata ed è sempre stata così come l’ho girata. Sul set la chiamavamo “la calamita”. Volevo che lo spettatore si innamorasse di Lorenzo come se ne innamora Lia, e che poi avesse il cuore spezzato insieme a lei.

Invece scegli di non mostrarci lo stupro, e a quel punto interrompi la scena. Perché? E penso anche alla recente narrazione sul Circeo, tra serie e film.
Io non avevo bisogno di vedere lo stupro e passare per quel trauma lì: non mi interessava, quindi non l’ho messo nel mio film. Non amo spremere il dolore, non penso abbiamo bisogno di vedere per l’ennesima volta una donna violata, ne abbiamo in abbondanza. Piuttosto trovo molto inquietante il momento in cui loro due restano soli, poco prima della violenza. Poi se uno vuole vedere un’altra scena di stupro, può prendere un altro film. Uno a caso.

Non mostri, ma dici. E qui penso alla domanda del giudice: “Lei ha goduto almeno un po’?”. Carne da macello in pubblica piazza.
Nel processo sono state fatte domande del genere, ma quella battuta non è presa verbatim. La condanna per stupro veniva edulcorata in caso di orgasmo o godimento. Ecco, quella è una scena molto violenta e per me necessaria da far vedere. Quella battuta mi fa più male di una scena di stupro. E lei deve rispondere al giudice, capisci? Così tu ti rendi anche conto del perché non volesse testimoniare.

Tu sei una delle poche che, in ambito MeToo, si muove nell’unico modo che reputo sensato: facendo nomi e cognomi, come per la questione Viperetta (Savina ha raccontato delle molestie verbali avvenute durante una telefonata, nda). La tua opinione su chi racconta senza dire tutto fino in fondo?
Guarda, io ne ho parlato fino in fondo perché non mi so tenere un cecio in bocca, e perché francamente sono sempre molto poco strategica. Però non ho avuto ripercussioni, forse perché non mi si caga nessuno? (ride) Detto ciò, trovo che la retorica sul MeToo sia la morte e il veleno per qualsiasi tipo di vera rivendicazione. Bisogna essere molto scaltri e stare sempre un passo avanti, perché le rivendicazioni politiche devono muoversi velocissime, come uno squalo, che se non va avanti muore. Quello che andava bene ieri non va più bene oggi, perché oggi la nostra arma è già diventata la loro. E così ci fanno la pelle. Una delle cose peggiori uscite dal MeToo è che adesso tutti cercano queste creature mitologiche dette “le registe donne”.

Quante teste hanno?
Tu lo sai? È pazzesco. Un giorno mi piacerebbe molto essere considerata non una brava in mezzo alle donne, ma una brava e basta. È un concetto contro cui io mi scontro spesso, ci vedono come “le donne”, tutte, indistintamente. Siamo così dolcemente complicate: no. Quanti anni ha quel testo? Bellissimo, ma un po’ superato.

In questo senso non vedo questioni di genere dietro alla scelta di accostare te e Davide Marengo alla regia di Un’estate fa. Piuttosto siete due estremamente versatili nel passaggio di regia dalla serialità (tu Summertime, lui Il cacciatore) al contenuto d’autore (tu Primadonna, lui Notturno Bus). Qui avete avuto carta bianca, insieme.
Davide è molto aperto a suggestioni ed idee, e anch’io in fase creativa cerco di mettere da parte l’ego – che poi ce l’abbiamo tutti, sennò non faremmo i registi. L’unica cosa che viene prima del mio ego è la storia, e credo che Davide sia simile a me. Nella serie ci saranno due linee temporali molto diverse, e questo ha concesso di abbracciare anche stili differenti. La sfida di Summertime era diversa, essendo entrata in seconda stagione dovevo allinearmi a una regia già esistente, e lì il pop dell’estate serviva a raccontare quel sentimento giovanile. È stata una palestra incredibile, non avevo mai fatto un progetto così lungo in una macchina tanto enorme, dove comunque ti metti dentro Cattleya e Netflix. Nel film ho fatto scelte ancora diverse in funzione della storia, e credo sia questa la mia cifra: mettermi a servizio della narrazione.

Per il tuo film ti sei circondata di una crew composta perlopiù da donne. Potrebbe sembrare una scelta da quota rosa?
Non lo è, assolutamente. Sono contraria alle quote rosa, ma è più complicato di così. Per legge della fisica, prima di tornare nel mezzo, il pendolo che è molto sbilanciato da una parte dovrà sbilanciarsi molto dall’altra. Sul film è stata soprattutto una casualità, e quindi poi ho messo in chiaro in fase di comunicazione che non volevo passasse il messaggio del “film fatto dalle donne”.

C’è una battuta: “Una ragazza perbene all’inizio fa un po’ di resistenza. È giusto, e le fa pure onore”. Questo è un pensiero che rimane.
Credo anch’io che rientri tra i concetti duri a morire, per quanto il film sia ambientato negli anni Sessanta. Ricordo che da ragazza qualcuno provò a dirmelo: “Non metterti il rossetto per uscire”. Ma io non ho mai voluto essere una ragazza perbene. Probabilmente ho lasciato perdere qualsiasi tentativo di esserlo, perché non mi sarebbe mai riuscito.

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