Una volta ho fatto la coda per il bagno con Francis Ford Coppola. A rendere l’evento ancora più eccezionale (per me, non per lui) è il fatto che, in attesa con noi che la toilette degli uomini si liberasse, ci fosse anche Gillo Pontecorvo. Ora, non è che voglio mettere le mani avanti: ma se ti ritrovi tra due lavandini il tizio che ha girato la saga del Padrino, Apocalypse Now e La conversazione (proprio solo per dirne tre) non puoi davvero, fatta salva la bizzarra laicità del luogo dell’apparizione, non pensare a un’esperienza mistica. Perché io di Coppola ho visto e amato (quasi) tutto: mi è piaciuto anche Un’altra giovinezza e, con gli anni, ho fatto pure pace con Un sogno lungo un giorno. Ma mi è comunque difficile adesso, nonostante i dieci minuti di standing ovation che ieri gli ha tributato – in devoto rispetto alla sua leggenda – il Festival di Cannes (alla proiezione per la stampa però è volato più di un fischio…), non vedere negli eccessi di una fantasmagoria che mischia le catilinarie a Capitol Hill un pasticcio di proporzioni se non uguali molto simili all’ambizione senza freni che fa da carburante, ma anche da ingombrante zavorra, all’ultimo progetto del regista-patriarca italoamericano.
Che con Megalopolis firma un kolossal utopista e visionario dove non si limita, nei baccanali incontrollati di una decadenza senza rete, a osservare il declino dell’impero americano, ma con sorprendente ottimismo insegue, a 85 anni suonati, anche le promesse di un altro mondo possibile. Coppola ci mette la faccia e – cosa di non poco conto – pure i soldi: 120 milioni di tasca sua per una fiaba rétro e insieme futurista che produttori e uomini di cinema più terra terra hanno schivato come le pozzanghere, dove l’art déco dialoga con l’ultra tecnologia, la Storia antica con le proteste e le urgenze odierne.
Trasformata New York in New Rome (ma più che altro sembra Gotham City, tanto che anche alcuni personaggi risultano “fumettistici”) e il Madison Square Garden nel nuovo Colosseo, il cineasta tenta un parallelismo più bislacco che audace tra la Città Eterna caput mundi e la capitale (im)morale americana: così il protagonista è niente meno che Catilina (Adam Driver), un uomo capace addirittura di fermare il tempo, la cui idea e ideale di innovativa e inclusiva metropoli è osteggiata dal sindaco Cicerone (Giancarlo Esposito), la cui figlia Julia (Nathalie Emmanuel) però decide di aiutare l’avversario del padre. Ma mentre al grido di “potere al popolo” cresce lo scontento della massa, Clodio (Shia LaBeouf), il figlio del banchiere Crasso (Jon Voight), e un’ambiziosa giornalista televisiva tramano per sovvertire l’ordine.
Caotico e megalomane, volutamente, spregiudicatamente (ma anche rischiosamente) kitsch, l’ultimo film di Coppola più che il testamento cinematografico, il Mastorna (il film mai realizzato da Fellini, ndr) di un autore che crede in questo progetto da più di quarant’anni (e fu costretto ad abbandonarlo nel 2001 a causa dell’attacco alle Torri Gemelle), è l’epitaffio di una società consumata chiamata a cambiare rapidamente – e radicalmente – strada se non vuole estinguersi, autodistruggersi. Un apologo (oltre che un appello) prettamente politico, Megalopolis, dove l’autore però eccede in fasti onirici, la satira spesso è grassa e il grottesco si rivela (Östlund, come back!) una cifra a lui poco consona.
Poi certo, alcune cose sono semplicemente geniali, da applauso a scena aperta: come quando, nel bel mezzo della proiezione, le luci sembrano riaccendersi e un attore sale sul palco per porgere una domanda a Catilina/Driver, che ovviamente risponde a tono. Un artificio “difficilmente” riproponibile in tutte le sale del mondo, ma che dà la portata dell’evento che ha riportato sul grande schermo un film di Coppola, vero Fitzcarraldo del grande schermo, tredici anni dopo il suo ultimo lungometraggio.
E se non si può non ammirare il coraggio, l’innovazione, il desiderio senza età di cambiare le regole del gioco, sarebbe disonesto non sottolineare la fatica del regista a governare il caos che lui stesso ha creato, così come la retorica che affligge il discorso sulla fine della civiltà e l’inizio di un mondo nuovo. Definito prima dell’arrivo sulla Croisette come un film “folle e invendibile”, Megalopolis – che conta su un cast all star (ci sono anche Dustin Hoffman, Laurence Fishburne, Aubrey Plaza e Talia Shire; anche se quella che forse risalta di più tra molti è la meno nota Nathalie Emmanuel) – non è né l’una né l’altra cosa: ma è talmente trash che non mi stupirei che (mio malgrado) tra cinquant’anni diventasse un classico.