C’è una cosa che il regista con i capelli da ragazzo fa sempre bene: una cosa che lo rende speciale. Sa riconoscere a occhio nudo il peso, l’altezza, la forma – e persino il colore – della sospensione. Dell’attimo in cui (forse) non accade niente: ma potrebbe accadere tutto. È il suo CAP, il suo numero civico, il codice non solo fiscale del suo cinema. Perché Michel Franco, classe ’79, fratellino minore dei “three amigos” (Cuarón, Iñárritu, del Toro, i padri della patria che hanno abbattuto il muro che separava il Messico da Hollywood), è uno di quelli: di quelli che conoscono i movimenti interrotti, le linee spezzate, gli spazi bianchi. E si sentono davvero a casa solo lì: in quell’assenza, nella fessura immacolata che separa una riga dall’altra, in quel cortocircuito tacito, ma non per questo meno spiazzante, meno dirompente.
Era già abbastanza palese nel precedente (e sottovalutato) Sundown, lo è in modo ancora più evidente in Memory (dal 7 marzo al cinema con Academy Two), dolente e crudo – ma infine terapeutico – film sul rimosso e sul negazionismo: un dramma scomodo ma capace di estrema (ed inattesa) empatia, figlio di un disagio forte e molto contemporaneo, fluttuante nella zona d’ombra di una reminiscenza faticosa, rovente, ingombrante.
L’incontro tra due persone danneggiate, ferite, andate in frantumi: una che non si ricorda più chi è, l’altra che vorrebbe dimenticarsene per sempre. Lui, Saul, è un uomo ancora giovane che soffre però di demenza e vive prigioniero della sua stessa casa; lei, Sylvia, un passato da alcolista, è una donna piena di cicatrici, che lavora in un centro di assistenza per adulti, aiutando chi non ce la fa (più) da solo.
Si ritrovano alla festa del liceo, lui segue lei senza sapere perché, lei non la prende bene: ma poi… Eppure non è facile fare pace con il mondo: o tentare di sentirsi leggeri portando uno zaino (oltre alla croce) pieno di sospetti, di dubbi, di – spesso insostenibili – fraintendimenti.
Bello sin dall’inizio, con quei primissimi piani di volti presi di profilo, Memory gioca partite importanti in inquadrature fisse, da cui, nemmeno volendo, si potrebbe scappare: Franco affronta temi ruvidi come l’abuso, la pedofilia, la dipendenza, la malattia, ma spinge, senza fini assolutori, la sua abituale ferocia a confrontarsi con la tenerezza, lo schiaffo con il sentimento, la carta vetrata con la comprensione.
Facendo del suo film (post) traumatico un’inconsueta storia d’amore che sta aggrappata (là dove tutto chiede ed esige salvezza) ai suoi magnifici interpreti: e se la prova di Jessica Chastain è, una volta di più, ad alta intensità, è lo smarrito Peter Sarsgaard – la faccia che avete visto mille volte ma a cui non sapete mai associare un nome – a fare la differenza, come dimostra anche la Coppa Volpi vinta meritatamente a Venezia.
Due anime alla deriva che si ritrovano a resistere alla corrente, in quello che più di tutto è un film sul prendersi cura di sé, degli altri: unica vera ricetta per sopravvivere. Là dove la felicità è un istante segreto, la sospensione che Franco, si diceva, conosce bene. Come il silenzio: quello prima del primo bacio.