La cosa ci era già sfuggita di mano con Parasite, ma chissà se dobbiamo chiamare Bong Joon-ho maestro. La domanda in realtà è mal posta. Rifaccio: chissà se dobbiamo chiamare Bong John-ho maestro del cinema coreano. Perché questo, dopo le vittorie del suo ultimo (anzi, a questo punto penultimo) film agli Oscar del 2020 (ricordiamolo: Miglior film, Miglior regia, Miglior film internazionale, Miglior sceneggiatura originale), è l’appellativo che ha cominciato a circolare in associazione con il suo nome.
La questione non è retorica: la carriera di Bong non è mai stata la più coreana tra quelle in circolazione. Park Chan-wok (quello di Oldboy) è un regista molto più coreano di lui, nel senso in cui Vittorio De Sica è più italiano di Luca Guadagnino. Kim Ki-duk, scomparso un paio di mesi prima degli Oscar-trionfo di Bong, lo era. Per non parlare di Hong Sang-soo. Nomi da festival, da biblioteca, da cinefili, Oldboy solo si salva. Bong è quello che ha dichiarato che adora lavorare con attori inglesi e irlandesi; che frequenta da tempo i giri di Hollywood; e che ha compiuto, con Parasite, un percorso curiosamente a ritroso, in quanto Snowpiercer (2013) e Okja (2017), i suoi due film precedenti, erano girati in inglese con un cast internazionale.
Parasite era un film per occidentali. Non la temuta “furbata”, ma la conquista del West non avviene in un paio di giorni. Il cinema orientale era tradizionalmente relegato alla nicchia intellò, anzi, capace di rendere intellò pure la violenza e un cinema di violenza (ancora Park con la sua trilogia della vendetta, che comprende, oltre Oldboy, Mr.Vendetta e Lady Vendetta). Parasite ha reso pop il cinema coreano negli anni in cui spopolava la hallyu, la “Coreomania”, tra K-pop, kimchi e una penetrazione culturale usata come arma di soft power. E, allo stesso tempo, riusciva in un miracolo raro: affondare la lama in problemi nazionali della Corea del Sud, dando loro risonanza internazionale.
Lo stesso equilibrio impossibile è quello che ricerca Mickey 17, ultimo lavoro di Bong basato sul romanzo Mickey7 di Edward Ashton, da ieri al cinema in Italia. Il tempo è al futuro: dalla Terra ormai inabitabile ma ricca di tecnologie, l’esplorazione spaziale si è fatta colonizzazione. I posti per i viaggi che andranno a popolare nuovi pianeti dell’universo sono però limitati, e un modo per assicurarsi un biglietto (gratuito) è quello di arruolarsi come Sacrificabile di una spedizione (attenzione agli spoiler minori, da qui in avanti).
È quello che sceglie di fare Mickey Barnes (Robert Pattinson) dopo essere stato tradito dall’amico d’infanzia Timo (Steven Yeun) per un affare di soldi e aver rischiato di essere uccisi dai sicari di uno strozzino a cui avevano chiesto soldi per aprire un negozio di macaron (perché, secondo Timo, sarebbero stati i “prossimi hamburger”). Unico compito dei Sacrificabili: prestare il proprio corpo come cavia per essere uccisi molteplici volte. Mica una sola: grazie a una stampante di corpi umani e a un sistema di backup della memoria, un Sacrificabile può essere immediatamente ricreato a seguito del suo decesso. Così è pronto per tornare a morire, aggiungendo al proprio nome un numero a favore di chiarezza. Nel caso di Mickey, durante il viaggio arriverà alla diciassettesima versione.
La spedizione non è come le altre, però. Infatti è finanziata e capitanata da un politico di grandi mire e successo moderato, Kenneth Marshall, interpretato da Mark Ruffalo. Insieme a lui la moglie Ylfa (Toni Collette) e il delegato di una “chiesa” temporale alla quale i due appartengono. Compito di quest’ultimo è registrare, come in un film di propaganda bellica, tutto quello che concerne Marshall e la consorte, due invasati che, metà tra l’esserci e il farci, sognano un nuovo mondo interamente popolato da esseri umani “puri”, tra il delirio e l’affabulazione populista.

Foto: Courtesy of Warner Bros. Pictures
A bordo della navicella, Mickey conosce un’agente di sicurezza, Nasha (Naomi Ackie), e se ne innamora. Tutto bene qual che continua bene? Chiaramente no: perché, allo sbarco sul pianeta di destinazione, il confronto con una specie autoctona e la duplicazione accidentale del corpo (e della personalità) di Mickey a seguito di una morte mancata complicheranno la situazione.
Insomma: chi si aspettava una replica di Parasite rimarrà con un palmo di naso. O meglio, lo sarà chi avrebbe voluto vedere “più Corea”, almeno a livello superficiale. Se infatti la conquista dello spazio si è sedimentata nella narrazione – cinematografica soprattutto – come un tema all’occidentale; e se l’incontro-scontro con una specie nativa di un altro mondo non pone più dilemmi etici da scalpore (e al massimo viene usata come metafora del colonialismo otto-novecentesco); essa è nondimeno presente nella produzione culturale contemporanea della Corea del Sud. Dove viene spesso declinata secondo la chiave dell’ironia.

Foto: Jonathan Olley
Un esempio è l’ultimo romanzo dello scrittore sudcoreano Bae Myung-hoon, In orbita!, uscito nel 2020 e portato in Italia l’anno scorso da add editore. La storia si sviluppa attorno a un dipartimento governativo dello Stato, incaricato di presiedere alle operazioni di aeronautica militare. Siamo nel futuro, uno in cui è più importante mostrarsi indaffarati a “lanciare qualcosa” – Launch Something! è il titolo inglese del libro – che creare veramente una strategia di governo. In questo contesto, Bae attiva una satira leggera, ma senza sconti, dei funzionamenti interni della nazione, mentre i personaggi si perdono in strutture statali ridicole e conversazioni a tratti surreali.
Lo stesso avviene in Mickey 17, dove l’ambientazione “in orbita” esplora sia un evidente interesse per i suoi stilemi e codici narrativi, sia è usata come chiave ironico-satirica per muovere una critica al sistema-mondo, e occidentale in primis. Dico addirittura un’ovvietà se, alla menzione del personaggio di Ruffalo, non avete potuto non pensare a Donald Trump e ai ranghi del populismo internazionale.

Foto: Courtesy of Warner Bros. Pictures
Il peccato sta qui, perché le riflessioni che offre Bong non sono, probabilmente, rinfrescanti. Godersi Mickey 17 pare più un esercizio di recupero filologico nella storia di questo e di quello, di questa e quell’altra nicchia della storia del genere o della cultura coreana, che un ingaggio filosofico su un tema di peso specifico elevato a cui si voglia trovare una altrettanto massiccia soluzione. E sul finale, algoritmico, si scivola via.
Mickey 17 rimane un film lungo (due ore e venti) che regge la prova della propria durata, grazie all’alternanza serio-faceto – la sala sghignazza, nda – e alla bella prova di Pattinson, che muta da Batman a Cedric Diggory (un minuto di silenzio per voi, Potterhead) con il ritmo del vento e si conferma uno di quelli che hanno lavorato davvero bene negli ultimi anni, specialmente su di sé.

Foto: Courtesy of Warner Bros. Pictures
Qualcuno nell’universo-cinema (cioè Stanis La Rochelle) direbbe che Bong è uno “artisticamente instabile”, per il passaggio dalla fantascienza al realismo e di ritorno. O anche per i guizzi di ultraviolence a cui è soggetto il film, tra amputazioni subitanee, vendette sanguinolente e scene per esperti di canini (i denti, sì). Un modo alternativo e più ficcante di descriverlo potrebbe essere postmoderno, se la categoria si applicasse a un’arte, quella del cinema, nata con la modernità stessa.
Invece non lo fa, e di questo pastiche – mica un pasticcio, eh – che è Mickey 17 rimane da dire: era già tutto previsto, tranne il film stesso. Perché mai uno che ha fatto la storia vincendo la categoria di Miglior film agli Oscar con un film in una lingua diversa dall’inglese dovrebbe, al secondo giro, buttare la chance di ripetere il risultato o, appunto, il miracolo?

Foto: Courtesy of Warner Bros. Pictures
«Mi spiace tanto per i produttori e i team marketing per quello che sto per dire, perché so che fanno un lavoro davvero difficile. Ma una volta che una storia, o un personaggio, o una situazione mi ha affascinato, io vado avanti, e ne faccio un film. Davvero, non tengo in conto i rischi. Forse non sono in grado di farlo». Questa la spiegazione che ha dato Bong al Los Angeles Times.
Ergo, meglio accollarsela. Anche perché è troppo facile dire che uno è un maestro del cinema coreano quando fa un film in Corea del Sud e piace agli occidentali. No: o si è maestri del cinema, o non lo si è. Chissà quanti “maestro” leggeremo in meno ora che ci siamo accorti che il nuovo lavoro di Bong non tiene il passo del precedente. Ma l’arte è beata perché di queste voci non si cura. E se, per tornare a un uso antico, il termine maestro significa in primis uno che ben pratica l’arte nell’accezione di mestiere; allora uno come Bong, che se la porta comunque a casa (peraltro con la fotografia di Darius Khondji), un maestro lo è.

Foto: Courtesy of Warner Bros. Pictures
Non resta che aspettare il prossimo, che, a quanto pare, tratterà delle creature degli abissi. Ma come? Ma in che senso? E che ne so. Nuovi aggiornamenti su questi canali, spero presto.