La vendetta, ci viene sempre detto, è un piatto che va servito freddo, a meno che non siate fan dei più recenti film sul tema, nel qual caso la vendetta va servita bollente e preferibilmente a 200 km all’ora. Monkey Man, nelle sale dal 4 aprile, è, in superficie, una storia di vendetta piuttosto semplice: c ‘è un uomo che cova una vendetta; un uomo che si infiltra nel mondo dei cattivi con l’intento di procurarsi un chilo (o due, o 50) di carne; un uomo che prende a pugni (e calci) altri uomini. E che pugnala, taglia, sgozza, sventra. Il suo sceneggiatore-regista-produttore-star Dev Patel ci mette molto amore, in tutto questo, e rimane abbastanza consapevole del fatto che sta entrando in un ambiente in cui qualche esplosioni e una sparatoria non sono sufficienti. Tutto dev’essere un corpo a corpo.
Fortunatamente, Patel non ha problemi con quest’idea alla base del film. Il suo obiettivo con il suo debutto alla regia non è quello di battere i produttori di film d’azione e i picchiatori di Serie A al loro stesso gioco, ma di farsi strada tra le loro fila. La sua è un’incursione allegramente anarchica nel mondo post The Raid – Redenzione e post John Wick, fatto di stili di combattimento misti e adrenalinici scontri d’armi da fuoco; è tanto la sintesi di tante carneficine precedenti quanto un thriller classico. Alla prima al Festival SXSW, il regista ha parlato del suo amore per Bruce Lee di quand’era bambino, e ha citato il cinema d’azione indonesiano e coreano, oltre a un “certo” franchise di Keanu Reeves. Se da un lato questo ingresso nel territorio della mayhemsploitation internazionale dà spesso l’impressione di essere l’omaggio grezzo e sincero di un fan, che porta le fonti citati al massimo, dall’altro suggerisce che se la tecnica di Patel dietro la macchina da presa sarà all’altezza della sua passione per il genere, allora la sua sarà una forza da non sottovalutare.
Il suo personaggio, noto solo come “Kid”, è un volto fisso nel circuito dei fight club clandestini di Mumbai; è essenzialmente un sacco da boxe umano, pagato dal promoter (Sharlto Copley) per prendere a pugni chiunque si trovi di fronte. È noto per indossare sul ring una maschera da scimmia, che è anche un omaggio a Hanuman, la divinità indù che un tempo guidava un esercito di scimmie contro gli antichi soldati del Male. Il personaggio mitologico era come un supereroe per lui quando era bambino e viveva in un remoto villaggio di campagna. Sua madre gli raccontava le grandi gesta di Hanuman. Questo fino a quando non arrivò la polizia e massacrò i suoi amici, i suoi vicini e la donna che lo amava più di ogni altra cosa nell’universo.
Ora il ragazzo è un uomo adulto, che vive nella metropoli. Ha ottenuto con una truffa un lavoro presso Queenie (Ashwini Kalsekar), che gestisce un club per ricchi turisti in cerca di sesso e per l’élite “tossica” di Mumbai. Dopo aver fatto amicizia con Alphonso (Pitobash), il personaggio che funge da spalla comica, Kid ottiene una promozione e si ritrova a servire champagne nella sala VIP. Qui incontra Rama Singh (Sikander Kher), cioè il capo della polizia nonché il responsabile del massacro avvenuto nella città natale del nostro eroe. L’occasione di regolare quel grosso conto in sospeso è a portata di mano di Kid. Deve solo trovare il momento giusto per colpire.
Ci ritroviamo nel bagno degli uomini dopo che Kid ha sabotato la dose di droga di Singh, e a questo punto abbiamo il primo vero assaggio di Patel come autore interessato alla messa in scena di combattimenti ravvicinati pieni di pugni e caos. Si capisce che lui, il direttore della fotografia super satura Sharone Meir, il coreografo francese Brahim Chab e il coordinatore degli stunt Udeh Nans (e probabilmente la controfigura di Patel) hanno preparato una lunga sequenza che inizia con la semplice estrazione di una pistola e presto tira in mezzo una vasca per pesci crivellata di proiettili, porcellane rotte, mascelle spaccate, una scena di inseguimento in tuk-tuk e più inquadrature in shaki-cam di quante si pensasse fossero legali. Lo stile di girare sequenze di combattimento che fanno sentire gli spettatori come se fossero loro stessi nel bel mezzo della mischia è diventato ormai un cliché. Tuttavia, Patel e soci si lanciano in questa serie di scene con l’esuberanza dei dilettanti gasatissimi, piuttosto che dei professionisti navigati (leggi: stanchi). Il fatto che quelle scene ci siano così familiari non affievolisce la loro forza, probabilmente a causa della passione dietro la cinepresa e della pura e semplice fisicità davanti ad essa. E considerate che Patel si sta solo scaldando…
Monkey Man non si sottrae al ritmo ben rodati del film d’azione: anche in questo caso, si tratta dell’omaggio a decenni di action da parte di qualcuno che conosce queste storie letteralmente da ogni angolazione. Dopo che Kid è sfuggito ai suoi rapitori ed è stato curato da una comunità transgender che ha affrontato in prima persona persecuzioni e violenze, è solo una questione di tempo (e di montaggi a tema allenamento hardcore) prima che l’incarnazione mascherata di Hanuman ritorni per un’ultima battaglia contro i boss. Il film affronta il modo in cui gli emarginati e i diseredati della società vengono trattati da chi governa, la maniera in cui le differenze religiose e culturali vengono politicizzate e poi strumentalizzate in nome del potere e del profitto, e quella in cui il sistema delle caste continua a deformare l’umanità di tutte le persone coinvolte. Patel ha dichiarato di aver voluto portare “l’anima” a un genere che ama così tanto, oltre a una specificità culturale che va oltre la facile esotizzazione. Si capisce che sta cercando di inserire in questa storia la sua identità come interprete e come persona, per dare la sensazione non solo di guardare un film d’azione girato perlopiù in India, ma anche di essere in contatto con le proprie origini e il proprio retaggio sociale e culturale.
Detto questo, Monkey Man è il mezzo attraverso cui Patel lascia il suo segno nel cinéma du kapow del XXI secolo, facendo appello alla stessa emozione che prova da fruitore di questi film. Questo non è un film con un messaggio: è un film di puro caos; con personalità, brio e tanti spunti di riflessione, ma comunque un film di puro caos. Così, quando Patel sferra il primo fulmineo gancio destro e punta una gomitata in faccia ai teppisti che sorvegliano la porta d’ingresso del fight club dando così il via a un ultimo atto che può tranquillamente reggere il confronto con quasi tutte le grandi sequenze di arti marziali/sparatorie degli ultimi dieci anni o giù di lì, tocchiamo con mano la materia di cui sono fatti i suoi sogni. Anche quando Monkey Man narrativamente inciampa, è comunque pieno del sangue, del sudore, delle lacrime e della gioia di una persona che era determinata a realizzarlo. Patel ha chiaramente fatto i compiti a casa e si è allenato duramente. Un eventuale ingresso nel pantheon dei creatori pulp ipercinetici è un traguardo già ampiamente raggiunto.