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‘Napoleon’: l’imperatore di Ridley Scott (e Joaquin Phoenix) è un totale cogl*one

Il regista del ‘Gladiatore’ firma l’epopea che avrebbe voluto girare Stanley Kubrick. E, nonostante la sfrenata performance del protagonista, è indeciso sul tono da prendere. La Rolling recensione

Foto: Kevin Baker/Apple TV+

“Tutta l’arte è autobiografia”, disse una volta Federico Fellini. “La perla è l’autobiografia dell’ostrica”. Nessuno accuserebbe Napoleon, l’epopea di Ridley Scott nelle sale dal 23 novembre lunga due ore e mezza (questa, almeno, è la durata della versione per i cinema; attendiamo la versione di quattro ore annunciata per lo streaming) sull’ascesa e la caduta del dittatore francese, di essere un’autofiction vestita in abiti d’epoca. Ma di certo non lo si può definire una perla. Partendo dalla Rivoluzione francese e finendo con l’uscita di scena di monsieur Bonaparte dalle sue spoglie mortali, la fluviale, sfacciata e a volte incespicante lezione di Storia del regista non è altro che un tentativo di rievocare la magia dei filmoni di un tempo. Ci sono campi di battaglia disseminati di cadaveri, un cast di migliaia di persone, corsetti a bizzeffe e cartelli in corsivo a mo’ di film muto. Ci sono immagini che ti fanno desiderare che il grande schermo sia ancora più grande, in modo da comprendere adeguatamente la loro scala e la loro portata, e uno sfarzo che grida prestigio anche quando il film stesso non riesce a evocarlo.

Ma c’è anche un senso di ammirazione per il “piccolo colonnello” che comandava grandi eserciti che trapela da Napoleone. Ed è abbastanza palpabile da farvi chiedere se, nascosto in questo ritratto di un imperatore, non ci siano anche accenni di autoritratto. Stiamo parlando di un uomo che aveva origini umili; che sapeva di essere destinato a cose più grandi, ma ha voluto che questo destino si realizzasse solo quando si fossero presentate le opportunità; e che ha trasformato una miscela di intelligenza strategica, capacità di leadership, rancore e istinto per i gesti eclatanti in una ricetta per la vittoria, tanto per fare un dispetto a chi non credeva in lui. Quell’uomo ha ora girato un film su Napoleone, e ci sono momenti in cui si può immaginare il leggendario regista ottantacinquenne, prepotente e instancabile, che fissa l’autocrate al centro della sua gigantesca tela e pensa tra sé e sé: eccomi qua.

Napoleone Bonaparte ha affascinato i registi per decenni, ed è stato il soggetto sia del più grande film forse mai realizzato (Napoléon del 1927 di Abel Gance, geniale e audace) sia del più grande film che invece non è mai stato realizzato (il progetto di Stanley Kubrick, notoriamente abortito, con Jack Nicholson). È una figura che contiene molte cose, ed è per questo che Sir Ridley ha realizzato non uno, ma ben tre film su Napoleone, che sono stati poi confezionati come un’unica entità.

Il primo sembra uscito da una macchina del tempo, e ci trasporta non tanto nel 1790 quanto negli anni Sessanta, quando i cinema erano pieni di storie di audaci gentiluomini con cappelli ancora più audaci, che cavalcavano attraverso tundre in widescreen. Scott ha sempre avuto un talento e un debole per le epopee old school: cosa sono Il gladiatore, Le crociate – Kingdom of Heaven o Exodus – Dei e re se non tentativi di dare voce al suo David Lean interiore? Per gran parte della prima metà di Napoleon, il regista, il direttore della fotografia Dariusz Wolski e il team di produzione fanno le cose in grande, mettendo in scena sontuosi banchetti, battaglie e sequenze piene di folla, come la decapitazione di Maria Antonietta, che traboccano di brio rétro. Questo è il periodo di “ascesa” di Bonaparte, e il film si sforza di corrispondere al crescente senso di autostima del suo soggetto (se non alla sua visione: la prima grande scena, l’assedio notturno di Napoleone a Tolone, è così cupa da far impallidire le scaramucce di House of the Dragon). È come se Scott avesse deciso di tornare al suo esordio, I duellanti del 1977, e di sovradimensionare tutto.

Dietro ogni grande uomo c’è una donna ancora più grande, ed è nel momento in cui il Napoleone di Joaquin Phoenix e la Giuseppina di Vanessa Kirby incrociano i loro sguardi a una festa che il secondo film di Scott – una storia d’amore che oscilla tra l’appassionante romance e la commedia sexy – inizia a farsi strada. Dopo aver stabilito la brama di gloria di Bonaparte e aver introdotto la vedova Giuseppina come oscuro oggetto del desiderio (nonché stripper ante litteram), il film inizia a rivolgere il suo sguardo alla loro brama reciproca. Lei lo seduce dapprima sollevando la gonna e dicendogli che “se guardate in basso, vedrete una sorpresa”; in seguito, lui comunica il suo desiderio carnale strisciando sotto i tavoli e mettendosi a ragliare, battendo lo “zoccolo” come il cavallo più arrapato del mondo.

Anche se siete ormai assuefatti alle scappatelle di aristocratici libidinosi sullo schermo, c’è qualcosa di particolarmente bizzarro nella carnale tra il Primo console della Repubblica Francese e la sua first lady. Non è tanto un amour fou quanto un amour “macheca**o?”. Non si può dire che Phoenix, che mostra la sua caratteristica intensità, o Kirby, che sa come giocare con la macchina da presa per ottenere il massimo effetto (pochi attori contemporanei riescono a fare di più con il semplice contatto visivo), non si impegnino in quelle scene. Al contrario, si lasciano andare agli aspetti più assurdi di queste scene d’amore in modo così accanito che viene da chiedersi se il confine tra perverso ed esilarante sia, in realtà, invisibile. Il potere è un afrodisiaco.

Scott oscilla con delicatezza tra l’esibizione di una carneficina ben coreografata, con tanto di cannonate, lesioni fisiche, cavalli sventrati, sciabolate e sventramenti – non vi divertite? – e flirta ironicamente con il genere erotico. E poi, di punto in bianco, c’è un cambiamento. Napoleone ha già dimostrato di essere il genio militare per eccellenza, ha rovesciato il governo della Francia e si è dichiarato un titano. L’Europa è praticamente sua. E poi, mentre sta negoziando con gli inglesi, Napoleone sbotta: “Pensate di essere così grandi solo perché avete le barche!”.

Vanessa Kirby e Joaquin Phoenix in una scena del film. Foto: Apple TV+

Improvvisamente, Bonaparte non è nemmeno un re bambino. È un bambino petulante con un cappello bicorno, un leader apparentemente abbattuto da un calo di zuccheri nel sangue. Sarebbe la più bella battuta della storia del cinema, se non fosse che una ancora migliore è dietro l’angolo. Dopo che Giuseppina accusa il suo amato di essere grasso, Napoleone concorda sul fatto che in effetti ama mangiare non con saggezza, ma bene; considerando che ha raggiunto un tale peso in un tempo relativamente breve, tuttavia, il dittatore ritiene di essersi guadagnato il diritto di indulgere in tali eccessi: “Il destino mi ha portato a questa costoletta d’agnello!!!”, urla, e ci si ricorda perché il raggio d’azione di Phoenix può comprendere Johnny Cash, Gesù, Joker e “Joaquin Phoenix” (giustizia per Io sono qui!). Quello che fa con quella battuta non è solo delirante. È quasi miracoloso.

È il terzo film che covava di colpire Napoleone, paziente come un nido di vipere: il ritratto di un imperatore non solo raffigurato come un egoista o un eccentrico, ma come un fottuto coglione. Qualsiasi traccia del culto dell’eroe di Scott, intrinseco o meno, si spegne. E sia che lo sceneggiatore David Scarpa (Tutti i soldi del mondo) abbia pianificato di proposito tutto questo, sia che si tratti di un passo falso, Scott e Phoenix lasciano entrambi trasparire questo aspetto di Napoleone. Rabbia e spavalderia, decisioni sbagliate, per non parlare di un tentativo sconsiderato di dargli rilevanza fuori tempo massimo: Napoleone è una figura messa a nudo, sì, ma anche svelata nel fallimento della sua ambizione (un po’ come se il fratello biondo di Ben Affleck in The Last Duel avesse improvvisamente deciso di darsi un tono). L’interpretazione di Phoenix comincia così a passare dalla gelosia per l’infedeltà di Giuseppina e le esibizioni dei suoi successi in guerra a Waterloo e all’esilio, alle rivolte fallite e alla progressiva dissolvenza in nero.

Se questi tre film fossero riusciti in qualche modo a dialogare tra loro, si potrebbe vedere Napoleon come una sorta di grande sintesi della visione politica di Scott. L’ultimo slancio di energia sembra troppo poco e soprattutto arriva troppo tardi, anche se assistiamo a una battaglia sul ghiaccio in stile Aleksandr Nevskij, e ciò che rimane non è un vero e proprio lascito ideale di quel personaggio, la visione di un Napoleone complesso o persino un trattato su come l’ego di un singolo uomo può distruggere le vite di molti. Ci si ritrova invece a rimuginare su un’epopea totalmente folle, i cui difetti nascono da un’incertezza di prospettiva. Si inizia a vedere il film sorridendo all’idea che Scott possa scorgere qualcosa di sé in questo tiranno leggendario. Si esce chiedendosi se non veda questo protagonista della Storia solo come una scusa per vestire gli attori in abiti d’epoca e farli saltare in aria.

Da Rolling Stone US

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