Leggevo della morte del maestro Milos Forman e la mia mente traboccava di immagini. Non dei suoi film, almeno non subito. Ho visto Milos nella sua fattoria del Connecticut, mi indicava tenendo in mano un sigaro. Un gesto tutto meno che minaccioso grazie al calore e alla luce del suo sguardo. Sono passati otto anni.
Dovevamo parlare della sua carriera; degli Oscar che ha vinto per Qualcuno volò sul nido del cuculo e Amadeus, del successo dei suoi primi film, quelli che l’hanno portato in America. Milos non ne aveva voglia. Naturalizzato statunitense dal 1977, non ha mai dimenticato le sue origini: pronunciava il suo nome scandendo Mee-losh Forre-mahn. Voleva che gli parlassi con la stessa schiettezza con cui approcciava la sua stessa vita. L’accento ceco nella sua voce arrugginita scioglieva le stronzate come un laser. «Il successo… ah!», diceva indicando altrove. «Dov’era il successo quando nessuno andava in sala per Man on the Moon, per L’ultimo inquisitore?», sorrideva pensando alle sue ultime opere. «Io giro per divertirmi; per lavorare con altri artisti, per fare qualcosa che abbia un valore».
“Divertirsi”, però, è l’ultima cosa a cui ho pensato mentre mi raccontava la storia della sua vita. Nato a Caslav nel 1932, il giovane Milos ha osservato i suoi genitori – protestanti – mentre venivano deportati nei campi di concentramento nazisti, dove sono morti perché membri della resistenza. Diversi anni dopo ha scoperto che il padre era un architetto ebreo, e la madre era la sua amante. «Un melodramma», diceva con sorriso sarcastico.
Non finisce qui. Anche quando era solo un giovane regista della new wave di Praga, Milos aveva capito che la commedia era perfetta per esprimere i suoi impulsi rivoltosi. Al fuoco, pompieri! (1967) è apparentemente dedicato a una piccola città, ma tutto il film è avvolto in un sottotesto satirico pensato per colpire la tirannia del comunismo est-europeo, un sottotesto che gli è costato la censura. Taking Off, la sua prima pellicola americana, fu un flop, e nel 1971 Forman faticava a trovare lavoro nella sua nuova patria.
Poi, quattro anni dopo, ecco Qualcuno volò sul nido del cuculo, dedicato all’eroe tragico Randall Patrick McMurphy (Jack Nicholson) rinchiuso in un manicomio e determinato a combattere l’oppressione della dittatoriale infermiera Ratched. «Quella era anche la mia storia», mi raccontava del capolavoro che ha cambiato la carriera di Nicholson – «L’attore perfetto» -, la sua e quella di Louise Fletcher. «Era la mia lotta contro chi mi ha sempre detto di non fare quello che desideravo. Il partito comunista era la mia infermiera Ratched». Guardando il film è impossibile non notare l’empatia del regista verso i dimenticati, gli outsider. «Ho sorpreso tutta Hollywood con Hair, il mio film successivo», diceva. «Ma quale musical è più anticonformista di Hair?».
E così il regista famoso per dire “volti, mi interessano solo i volti. Il comportamento degli esseri umani” ha cominciato a dedicarsi alla storia, all’intreccio. «Volevo una struttura», mi ha detto di Amadeus, «nessuno voleva finanziare quel film». Abbiamo parlato della scena in cui Salieri (F. Murray Abraham, anche per lui un premio Oscar) ascolta con orrore la musica di Mozart, un genio che sa di non poter mai raggiungere. «Ok, hai ragione», mi diceva ridendo. «Sono sempre fissato con i volti. Nessun dialogo, connessioni tra umani». Per quanto riguarda i premi e il botteghino, invece, Milos era felice ma annoiato. «Non è qualcosa che posso controllare».
Così come non poteva controllare quello che diceva la critica delle sue ultime pellicole. «A qualcuno non frega niente di un film dedicato a Larry Flynt, un’editore porno che si è battuto contro la censura», mi ha detto. «A me sì». Poi mi ha spiegato che Man on the Moon, dedicato all’avanguardista della commedia Andy Kaufman, è il film «che più mi ha toccato emotivamente». Per questo ha chiamato i suoi gemelli – nati dal terzo matrimonio con Martina Zborilova – Andrew (per Kaufman) e James (per Jim Carrey, protagonista del film). «Molta gente non capisce Andy», mi diceva scuotendo la testa. «Molta gente non capisce me».
Non ho più visto Milos dopo il nostro incontro nella fattoria, ma è il nostro primo incontro a tornarmi in mente di continuo. Era poco che scrivevo di cinema, e lui era impegnato nella promozione di Ragtime. Insieme a lui c’era la James Cagney, una star tornata in scena dopo 20 anni di assenza solo grazie al regista. Aveva 81 anni, era fisicamente a pezzi e costretto su una sedia a rotelle. Nonostante tutto, però, per lo shooting fotografico si è alzato in piedi accanto al suo amico Milos.
Scattata la foto il regista l’ha aiutato a sedersi, e gli ha coperto le gambe con una coperta. È un’immagine indelebile, completamente priva di pietà o sentimenti fasulli. Ecco Cagney, felice di mostrarsi al mondo ancora forte; ecco Milos, con il ghigno di chi sa che il suo vecchio amico poteva alzarsi ancora. Due volti. Nessun dialogo. Solo due esseri umani. Puro Milos. Per me, l’essenza della sua anima e della sua arte.