Si porta il destino nel nome, la nostalgia: dal greco “nostos”, ritorno. È la trappola di chi si guarda indietro invece di andare avanti, il viaggio a ritroso sull’autostrada infinita del ricordo di chi in valigia mette anche il dolore dell’assenza. Come un Ulisse moderno, il Felice di Mario Martone, in cerca della sua Itaca dal richiamo irresistibile (altro che sirene…), che qui però si chiama Napoli, ed è la protagonista femminile di un film bello e inesorabile – appunto Nostalgia (in concorso a Cannes e dal 25 maggio nelle sale) – con i suoi vicoli, i suoi gradini, le sue strade, i continui sali e scendi, labirinto tentacolare e affascinante dove “tutto è rimasto uguale”, patria rinnegata e ritrovata, magica e pericolosa.
Perché il passato è un Paese straniero, ma ci dobbiamo tornare. E Martone non si tira indietro: avvolto il suo film in un mistero, chiuso a chiave dentro a un segreto più difficile da sopportare che da custodire, disegna su una mappa le linee di un sentimento che nemmeno per lui è sempre facile decifrare, nel patto eterno non scritto dell’amicizia, smarrendosi per ritrovarsi nel rione Sanità, in quei bassi che sono casbah, nel suo respiro potente che risponde a leggi proprie, che ti risucchia in un’anima che a volte è abisso.
Se ne è andato a 15 anni, Felice (Pierfrancesco Favino): lui e la sua moto, le cattive compagnie, una colpa che lo tormenta, “perché io c’ero, io ero lì”. Quarant’anni lontano a faticare, a (ri)farsi una vita, prima a Beirut poi al Cairo, imprenditore di successo, una moglie, figli no, non ne sono arrivati. Torna a Napoli a trovare la madre anziana (Aurora Quattrocchi), incontra un prete di strada (Francesco Di Leva), spera di rivedere quel vecchio amico che ora è diventato un boss (Tommaso Ragno): “Ma sono io tra i due quello che si è salvato”.
Oltre la tragedia greca, oltre il western moderno, Martone rilegge con libertà non supponente il romanzo omonimo di Ermanno Rea, trova la sua cifra stilistica ed emotiva (belli anche i flashback in 4/3 con la fotografia vintage da vecchio Super 8), cogliendo anche attimi (quando il protagonista lava la madre, ad esempio) di intensa tenerezza. E, nella riscoperta delle radici, celebra il requiem per un antieroe.
A cui Pierfrancesco Favino, che inventa con grande talento un accento italo-arabo sporcandolo di napoletanità, dona ostinazione e fragilità, in un’interpretazione sofferta che la giuria potrebbe apprezzare. Lasciandosi trasportare da questo racconto di fantasmi per le strade di una città che è madre e matrigna.