Diana Nyad era un’atleta di livello internazionale da anni quando nel 1975, dopo aver nuotato per otto ore attorno all’isola di Manhattan, diventò anche una celebrità e un’ospite fissa dei talk show. A 30 anni, Nyad si ritirò dopo aver infranto il record di nuoto in mare aperto percorrendo in 27 ore una rotta che andava dalle Bahamas alla Florida. Si mise a fare la commentatrice sportiva, a scrivere libri, a condurre programmi radio, a fare discorsi motivazionali e a godersi i successi di una vita.
Ma una cosa continuava a tormentarla. Nel 1978, provò a cimentarsi in un’altra avventura: una traversata di 165 chilometri, in 60 ore, da Cuba a Key West. Non andò bene. Dal vento fortissimo alla minaccia di squali, ogni elemento giocò a suo sfavore, e lei fu costretta ad abbandonare quella che sarebbe stata la sua impresa definitiva. Passarono decine di anni. E, poco dopo il suo 60esimo compleanno, Nyad pensò di riprovarci. Sì, era più matura. E non si allenava da trent’anni. Ma questa volta Nyad pensava di avere la tenuta psicologica e la forza di volontà necessarie a portare a termine il suo ambizioso progetto.
Se cercate su Google, scoprirete cos’è successo dopo. Se invece vi piace l’idea di vedere due superstar del cinema ricreare quest’impresa, allora c’è Nyad – Oltre l’oceano (disponibile su Netflix dal 3 novembre), un biopic confezionato per evidenziare l’entusiasmo della vittoria e l’agonia della sconfitta, non necessariamente in quest’ordine (chiediamo scusa se questo costituisce spoiler). Nyad è un solido manuale sul chi, cosa, quando e come è successo tutto questo, lasciando il “perché” per sottinteso (del resto, abbiamo forse capito perché il Capitano Achab è così ossessionato da quella balena bianca?). Ed è un film che ci ricorda che siamo ufficialmente entrati nella Awards Season, tradizionalmente affollata di film “tratti da storie vere” che mettono in scena tragedie e trionfi.
Sì, sappiamo che tutto questo può suonare estremamente cinico. Ci sono ovviamente decine di ragioni per cui Annette Bening voleva interpretare Diana Nyad, e non solo perché l’attrice quattro volte candidata all’Oscar può provare per l’ennesima volta il suo talento (previa una preparazione di un anno accanto a un preparatore olimpico). Questo ruolo le dà la possibilità di essere inflessibile, involontariamente divertente, centrata su sé stessa ma non del tutto consapevole di sé, competitiva in ogni campo, dura, determinata, ma anche umile e in perenne ricerca di riscatto. Lo stesso vale per Jodie Foster, che la affianca nei panni della sua tormentata migliore amica, confidente e allenatrice Bonnie Stoll. Un vecchio motto dell’industria del cinema vuole che non ci siano buone parti per attrici di una certa età: questo film ce ne regala ben due.
E ai documentaristi Elizabeth Chai Vasarhelyi e Jimmy Chin questo film offre la possibilità di sguazzare nel cinema di finzione mantenendo però quello che ormai è il loro “brand”. Questa power couple del panorama odierno ha firmato diversi documentari su atleti “estremi”, imprese pericolose e persone che vogliono sempre superare i propri limiti (nel caso di Free Solo, del 2018, abbiamo tutti e tre gli elementi in un’unica storia). Possono trovare ispirazione anche nelle parabole più tragiche, si veda il ritratto uscito quest’anno dell’amico di Chin nonché leggenda ambientalista Doug Tompkins (il film è Wild Life). La storia di Diana Nyad è, fra le altre cose, il perfetto mezzo per dare sfogo a tutti questi istinti, per rivelare ancora una volta la loro comprensione nei confronti di una certa mentalità, e per trasferire definitivamente il loro immaginario nel cinema mainstream.
No: Nyad non è un film fatto per acchiappare Oscar. La formula è la stessa di certi predecessori realizzati solo con quell’intento, ma accanto agli sviluppi più prevedibili c’è un’indiscutibile sincerità (si veda il discorso con cui Nyad/Bening insegna che non bisogna mai rinunciare ai propri sogni). Il percorso di Nyad è fitto di ostacoli, dalla complicatissima relazione con il padre agli abusi sessuali subiti da un coach di cui si fidava. La determinazione di Nyad viene rappresentata quasi come una chiamata dei suoi demoni, come il modo per sfuggire al suo trauma e al suo passato.
Le scene migliori sono quelle in cui vediamo Bening e Foster affettuosamente faccia a faccia, o quelle in cui sono affiancate dall’ufficiale di rotta John Bartlett, interpretato da Rhys Ifans. Assistiamo a delle vere interazioni umane quando questi tre condividono lo schermo senza pensare a strategie, condizioni climatiche o attacchi di meduse. Ed è in quei momenti che gli attori fanno di Nyad il ritratto di un’amicizia, messa a dura prova da decenni di alti e bassi, successi e fallimenti, cattivi comportamenti e perdoni: sono quelle le acque davvero tempestose in cui naviga il film. Ed è così che, da semplice drammatizzazione di una vita di resilienza, Nyad diventa il trionfo dello spirito umano.