Il vocabolario della Treccani, di cui mi fido ciecamente, dà una definizione dell’aggettivo «sfranto» che non condivido in toto: «Spezzato, infranto, anche sfinito, abbattuto, fisicamente stravolto». In realtà, per me l’essere sfranto coincide con il non poterne più del mondo, con l’essere pieni in ogni senso, gli occhi alzati al cielo e il desiderio di mandare affanculo chiunque s’avvicini o provi a parlare. Il vocabolario della Treccani, insomma, gli dà un’accezione vagamente vittimistica, che è assente dal mio personale lessico famigliare: essere sfranta è quasi un atto anarchico; non una resa bensì l’ammissione che da lì in avanti vale qualsiasi cosa in virtù della sfrantezza (o sfrantitudine, amo entrambi).
Ho tanti esempi di mimiche facciali, atteggiamenti e linguaggi di amici che riassumono perfettamente ciò che intendo con «essere sfranto», ma se esiste un’attrice che ha elevato questo status a massima espressione non posso che pensare che a Toni Collette. Australiana, classe 1972, il mio primo incontro con lei risale al 1994 in un cinema di Bologna, dov’ero andata con mia madre a vedere Le nozze di Muriel, piccolo, grande capolavoro che da lì in poi avrei annoverato nella personale lista dei film irrinunciabili di quegli anni. E non a caso, presentata alla Quinzaine des réalisateurs al 47º Festival di Cannes, la pellicola è valsa a Collette una nomination ai Golden Globe come migliore attrice in un musical o commedia. Nel 1996 è il turno del delizioso Emma, al fianco di Gwyneth Paltrow, Jeremy Northam e Ewan McGregor, che ritroverà anche due anni dopo, nel 1998, in Velvet Goldmine di Todd Haynes.
Non c’è tempo e non c’è spazio per dilungarmi su quanto Velvet Goldmine sia stato importante – ma che dico, fondamentale! – nella mia educazione musical-cinematografico-stilistica, aggiungo soltanto di averlo visto tre volte, trascinando amici inizialmente recalcitranti al cinema Nosadella per assistere a quello che «non è un semplice film, è un’opera con tutti i sacri crismi», e che in onore di Velvet Goldmine avrei acquistato dei pantaloni aderentissimi in vinile viola da sfoggiare con un cardigan comprensivo di polsi e collo in marabù. È lì che Toni Collette inizia a dare il via all’epica della donna sfranta: la sua Mandy Slade, (ex) moglie della star glam rock Brian Slade (Jonathan Rhys Meyers), passato l’eccitante periodo di sesso, droga, party & rock’n’roll, viene malamente congedata dal marito che intanto ha allacciato una relazione con Curt Wild (Ewan McGregor). Anni più tardi è struccata, con le occhiaie, devastata dalla vita, fumatrice impenitente e, appunto, sfranta; Brian è ormai una storia fatta e finita, e lei butta lì una frase tristissima e profetica: «È strano quanto appaiano belle le persone mentre vanno via».
Da Velvet Goldmine in poi, è un susseguirsi di personaggi stupendi e sfrantissimi: Lynn Sear, la madre dell’inquietante Cole (Haley Joel Osment) nel Sesto senso, interpretazione per la quale verrà candidata all’Oscar; la Kitty di The Hours; la stramba Fiona Brewer in About a Boy. E nel 2006 è il turno di Little Miss Sunshine, «sorprendente e irresistibile commedia da considerarsi uno dei migliori film dell’anno» secondo il critico Michael Medved, tanto che «Orson Welles dovrebbe tornare in vita per questo film», gli fa eco Joe Siegel. Un cast eccezionale, da Toni Collette nei panni della madre di famiglia Sheryl Hoover fino alla straordinaria Abigail Breslin, passando per Paul Dano, Alan Arkin, Steve Carell, Greg Kinnear; una valanga di candidature e di premi vinti; la colonna sonora scritta dai DeVotchka; l’ingresso ufficiale nella categoria «cult». Lo stesso anno registra un album, Beautiful Awkward Pictures, che pur non sfondando riceve il plauso della critica e dei fan: Collette è brava, dannatamente brava a cantare, a scrivere musica, a recitare, ed è credibile qualsiasi accento – americano, australiano, british – le venga richiesto di fare.
Lavora al fianco di Robin Williams in Una voce nella notte di Patrick Stettner; di Helen Mirren, Anthony Hopkins e Scarlett Johansson in Hitchcock di Sacha Gervasi; di Steve Carell, Allison Janney, Sam Rockwell e Maya Rudolph nell’ingiustamente sottovalutato C’era una volta un’estate di Nat Faxon e Jim Rash; di James Gandolfini in Non dico altro di Nicole Holofcener. Dal 2009 al 2011 è protagonista di United States of Tara, serie firmata Showtime nata da un’idea di Steven Spielberg e sviluppata da Diablo Cody, dove veste i panni di una casalinga e madre di famiglia affetta dal disturbo dissociativo dell’identità, caratterizzato dalla presenza di personalità multiple. Le critiche sono più che positive anche grazie all’interpretazione di Collette, che s’aggiudica un Emmy nel 2009, e United States of Tara riesce a conquistarsi un affezionato seguito di nicchia per tre stagioni, fino al 2011. Gli anni Dieci per Collette trascorrono un po’ sottotono rispetto ai precedenti: titoli non eccezionali s’alternano a una serie tv – Hostages, basata sull’omonima serie israeliana e andata in onda sulla CBS nel 2013 – cancellata però dopo una sola stagione.
Ma c’è solo da aver pazienza, ché il 2019 è decisamente il suo anno: Cena con delitto di Rian Johnson è un successo mondiale, con 313 milioni di dollari incasso, altissime percentuali di gradimento su qualsiasi aggregatore e Stephanie Zacharek del Time che lo inserisce tra i dieci migliori film dell’anno. Al resto ci pensa Netflix con Unbelievable, miniserie drama-crime basata su una serie di stupri avvenuti nello stato di Washington e in Colorado, oggetto poi del saggio A False Report. Fioccano le candidature, critica e pubblico sono in visibilio, Toni Collette è ritornata di diritto tra i grandi. Nel 2020 Charlie Kaufman la sceglie per il suo Sto pensando di finirla qui; l’anno successivo è nel cast di La fiera delle illusioni – Nightmare Alley di Guillermo del Toro, insieme a Bradley Cooper, Cate Blanchett e Willem Dafoe.
Oggi è la star assoluta di Frammenti di lei, serie Netflix tratta dal romanzo omonimo di Karin Slaughter, e di The Staircase – Una morte sospetta, miniserie HBO Max (in Italia in onda su Sky Atlantic) creata e scritta da Antonio Campos e basata sull’omonima docuserie del 2004 di Jean-Xavier de Lestrade. Qui Collette è Kathleen Peterson, moglie dello scrittore con velleità politiche Michael (Colin Firth) trovata misteriosamente morta in fondo alle scale nella loro abitazione, ed è più sfranta che mai. Una colonia di figli, un insopportabile marito narcisista con tendenze bisessuali, un lavoro manageriale che le succhia l’anima e un piccolo problemino con l’alcol: Toni è l’unica cosa che si salva delle otto puntate (ne sarebbero bastate quattro, è sempre la solita solfa) di The Staircase, tra un’accozzaglia di attori che non c’entrano nulla gli uni con gli altri e una trama allungata con tutte le risorse di brodo disponibili. Cara, sfrantissima Toni Collette: a nome di tutte le donne sfrante di questo mondo, grazie di esistere.