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La gara delle attrici e degli attori protagonisti è ancora apertissima. Fin da Venezia e Cannes 2022 sembrava già tutto scritto, e invece... Ecco chi è pronto a scalzare Cate Blanchett e Austin Butler, dati per sicuri vincitori dell’Oscar la prima già al Lido (da cui è tornata a casa con la Coppa Volpi) e l’altro sulla Croisette. Ma tutto può davvero cambiare, in questa Notte delle Stelle. E queste due categorie sono quelle ancora non blindate. Pronti? Via!
Il terzo Oscar per Cate – dopo quelli da supporting per The Aviator e come lead con Blue Jasmine – è assicurato. Così pensavamo tutti a Venezia 79. E in effetti la sua prova in TÁR, dove riesce a rendere più vera del vero una direttrice d’orchestra completamente inventata (dal regista e sceneggiatore Todd Field), è impressionante. Blanchett è davvero “the greatest actor alive”, come si chiedono i nostri colleghi americani? Probabilmente sì, e si merita qualsiasi statuetta. Ma non aveva(mo) considerato l’effetto Everything Everywhere All at Once…
Non era scontata nemmeno una candidatura per Ana de Armas, nominata per la prima volta. Nonostante, anche in questo caso, la sua performance sia sbalorditiva. Si può “essere” Marilyn? Lei dimostra di sì, e in Blonde tratteggia un ritratto sia fisico che psicologico che nessun’altra avrebbe potuto centrare. Ma il film non è piaciuto pressoché a nessuno, colpa della mano pesantissima con cui Andrew Dominik restituisce il mito di Norma Jeane. E l’interpretazione più “da Oscar” della stagione diventa, paradossalmente, la più debole di questi Academy Award.
Il caso della Awards Season 2022/2023. La campagna “presso sé stessa” (con l’aiuto di amici illustri) che l’attrice inglese ha fatto per perorare la sua candidatura e dar risalto a questo piccolo film indie porterà probabilmente l’Academy a riscrivere le regole sull’uso dei social nelle campagne “for your consideration”. Ma Riseborough è un’interprete di razza, e la sua outcast che cerca di riscattarsi, dimenticare le dipendenze e ritrovare il rapporto col figlio perduto commuove. Non vincerà, ma almeno ha sparigliato un po’ le carte.
Alla quinta candidatura – una delle quali, ironia della sorte, nei panni di Marilyn – Williams è destinata ad essere trombata ancora una volta, seguendo il corso di colleghe come Glenn Close e Amy Adams. Nei panni della madre di Spielberg, che si “distacca” dalla realtà borghese e nasconde (ma non all’occhio del giovane regista) i segreti di famiglia, è come sempre impeccabile. Ma le sfidanti sono troppo “pesanti”. E forse, come all’inizio qualcuno aveva suggerito, farla correre tra le supporting le avrebbe dato più chance di vittoria.
Ed eccola, l’ormai sicura (?) trionfatrice della serata. I Daniels, registi del probabile asso pigliatutto Everything Everywhere All at Once hanno scritto su Michelle Yeoh un ruolo che, come nel multiverso del film, comprende tutte le sue facce: diva assoluta, action girl, donna comune, leggenda del grande schermo. E lei le incarna tutte alla perfezione. Il recente filotto di premi conquistati (gli ultimi: BAFTA, SAG Award e Independent Spirit Award) confermano che, alla prima nomination, anche l’Oscar sarà suo. E anche Cate sta facendo il tifo per lei...
Austin Butler è sopravvissuto a un tour de force durato anni e a un personaggio “impossibile” (tanto che parla ancora come lui). E già questo basterebbe per dargli l’Oscar a occhi chiusi. È la sua interpretazione (anche canora) di Elvis a infondere di umanità profondissima il biopic tutto lustrini di Baz Luhrmann su “The Pelvis”. Industry e critici non hanno potuto fare a meno di accorgersene e il nostro ha già portato a casa Golden Globe e BAFTA. Poi c’è pure la coolness estrema: provate a togliere gli occhi di dosso ad Austin sul red carpet. Per noi vincitore senza se e senza ma.
In altri anni Colin Farrell sarebbe stato il nome da battere. Perché il sodalizio tra lui e Martin McDonagh (più Brendan Gleeson) è un match made in heaven dai tempi di In Bruges – La coscienza dell’assassino. E l’interpretazione di Colin nei panni del mandriano Pádraic è quella che lascia maggiormente il segno in questo film immenso. Nonostante la Coppa Volpi a Venezia 79 (che in passato ha tirato la volata a diversi colleghi, vedi Emma Stone e Olivia Colman), ci sono performance di cui si è parlato di più. E questo, si sa, conta.
Anche se non seguite i pronostici sugli Oscar e non avete visto The Whale, quasi sicuramente avrete sentito o letto in giro di quanto è bravo Brendan Fraser. E in effetti è così. Dopo anni molto duri, l’attore ritorna con una performance su cui non si discute: il modo in cui rende, anche soltanto attraverso gli occhi, l’anima bellissima di un uomo ferito è devastante. E le sue reazioni davanti agli applausi e ai red carpet sono tenere. Il problema però è che, proprio per la sua bravura (ha già vinto il SAG), Fraser avrebbe meritato un film migliore, meno sensazionalistico e altrettanto sensibile.
Tra le candidature più “a sorpresa", c’è quella di mister Normal People per questa piccola perla. “A sorpresa” perché se n’è parlato parecchio nella bolla, e siamo felici che il film sia arrivato ad avere questa esposizione. Mescal è perfetto nei panni del giovane padre separato che combatte contro una forma di depressione durante una vacanza con la figlia. E questo è il suo momento: nuova star dell’indie (ha sei titoli usciti o in uscita quest’anno) e nuovo Gladiatore per Ridley Scott. Non vincerà, ma per lui è solo l’inizio.
Il remake di Kurosawa (a sua volta ispirato a Tolstoj) vive della prova d’Attore di Bill Nighy. Che a 73 anni conquista la sua prima candidatura. E, con il ruolo del burocrate attempato che riscopre l’amore per le piccole cose, mette a segno la miglior performance della sua carriera. Anche se la sua vittoria è assolutamente improbabile (vista anche l'esposizione mediatica dei competitor di quest’anno), chapeau.
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