Riepilogo dai premi precedenti: il Golden Globe per il miglior regista è andato a Steven Spielberg (The Fabelmans); ai Directors Guild Award hanno trionfato i Daniels, cioè Daniel Kwan e Daniel Scheinert (Everything Everywhere All at Once); il BAFTA se l’è aggiudicato – a sorpresa – il tedesco Edward Berger (Niente di nuovo sul fronte occidentale), che però dalla cinquina degli Oscar è assente (come del resto, e non sono ovviamente mancate le polemiche, sono assenti quest’anno le registe donne). Dunque, chi strapperà l’ambitissima statuetta dell’Academy? Ecco quello che immaginiamo.
Martin McDonagh
Gli spiriti dell’isola
Martin non ha trionfato nemmeno in patria come ci si aspettava (e probabilmente pensava pure lui). Eppure questo sguardo malinconico sulla fine di un’amicizia e l’inizio di una guerra è un film immenso. Certo, è un’opera più sommessa rispetto al suo solito mix di archetipi pulp-fiction, ma che rimanda alle radici teatrali di McDonagh. E, rimettendo insieme il duo delle meraviglie di In Bruges – La coscienza dell’assassino, Colin Farrell e Brendan Gleeson, firma il suo lavoro più maturo. Peccato che quest’anno tra la storia del cinema by Spielberg e il fenomeno Everything Everywhere All at Once ci sia poco da fare. Ci rivediamo al prossimo giro, Martin.
Daniel Kwan, Daniel Scheinert
Everything Everywhere All at Once
Forti del consenso dei colleghi registi (che non è poco, perché i votanti della Directors Guild e dell’Academy si sovrappongono), Daniel Kwan e Daniel Scheinert, aka i Daniels, hanno finalmente dato a Michelle Yeoh quel che è di Michelle Yeoh. E, nel farlo, hanno creato un multiverso (letteralmente) postmoderno ironico e rétro, un mix di stili e registri che tiene insieme azione e comicità. L’esito è un meraviglioso pastiche che non ha bisogno di spiegoni, ma – semplicemente – esiste, all at once. Se per vincere l’Oscar bisogna conoscere il cinema, scuoterlo e reinventarlo, di statuette quest’anno ne serviranno due. Una per Daniel.
Steven Spielberg
The Fabelmans
Per noi le cose sono due: lacrime dei Daniels o lacrime di Spielberg. Che poi Steven non ha certo bisogno di questo Oscar, nella storia del cinema c’è già con le nove candidature per la miglior regia e le due vittorie per Schindler’s List (che portò a casa anche miglior film) e Salvate il soldato Ryan. Ma qui la questione è personale: The Fabelmans è il suo Amarcord, c’è il suo cinema ma c’è anche lui in tutta la sua vulnerabilità di autore e di uomo. L’Academy è sensibile a questi aspetti. E di certo a premiare Spielberg non si sbaglia mai, men che meno per un film come questo.
Todd Field
TÁR
Alle spalle ha solo due film da regista: In the Bedroom del 2001, diventato un caso agli Oscar dell’anno successivo, e Little Children del 2006, che fece guadagnare una nomination alla protagonista Kate Winslet nel 2007. Era dunque da 16 anni che Todd Field, “nato” attore (l’esordio in Radio Days di Woody Allen, tra i titoli della sua filmografia pure Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick), non girava un film. Il “project of a lifetime” è diventato questo falso biopic di una direttrice d’orchestra scritto (da lui stesso) appositamente per Cate Blanchett, che per fortuna sua e nostra ha accettato. Il risultato è un’opera sinfonica che prende mille direzioni diverse, nel bene e nel male, ma che lo consacra come autore. Ai critici USA è piaciuto moltissimo, ma le chance di una vittoria come regista sono ridotte al minimo. E, ahilui, anche come sceneggiatore, visto lo strapotere quest’anno della coppia dei Daniels dietro a Everything Everywhere All at Once. Ritenta: magari senza aspettare 16 anni.
Ruben Östlund
Triangle of Sadness
Il nome che non tutti si aspettavano di trovare, nella cinquina dei migliori registi. Nonostante la Palma d’oro – la seconda dopo quella vinta nel 2017 per The Square – ricevuta per questo turn involontario (?) sul Travolti da un insolito destino wertmülleriano, Ruben Östlund non sembrava destinato a questo boom di candidature con Triangle of Sadness: ha incassato, invece, anche quelle per il miglior film e la miglior sceneggiatura originale. Lo svedese dei miracoli si ritrova ad occupare il posto che, secondo alcuni, spettava a una donna: Sarah Polley per Women Talking – Il diritto di scegliere o Gina Prince-Bythewood per The Woman King. Non vincerà, ma è segno che l’Academy – e l’allargamento negli ultimi anni a membri sempre più “global” – sta puntando finalmente gli occhi sugli auteur che nascono e operano fuori dal circuito americano.