Presentando la versione restaurata di Accattone la scorsa estate al Cinema Ritrovato Festival di Bologna, Martin Scorsese ha ricordato l’«impatto indelebile» che il primo film di Pier Paolo Pasolini ebbe su di lui, «cresciuto in un quartiere molto duro». Allo stesso modo, 45 anni dopo quel 2 novembre 1975, si può dire che a Pasolini debba qualcosa anche chiunque abbia preso in mano una macchina da presa e sia sceso in strada una volta o l’altra a filmare «quartieri molto duri». Il difficile non è guardare dentro un obbiettivo. Difficile è addomesticare la durezza dei corpi, delle strade. Addolcirla attraverso lo sguardo. Prima bisogna andare, camminare. Bisogna mettersi in gioco.
Quando scende in strada con una macchina da presa nell’estate del 1961, quasi sessant’anni fa, Pasolini ha con sé soltanto lo sguardo. Scarse cognizioni tecniche nel senso di pellicole e obbiettivi. Ha seguito all’Università di Bologna le lezioni di Roberto Longhi, uno dei nostri critici d’arte più grandi: gli occhi pieni di Masaccio, Mantegna, Caravaggio. Al suo fianco c’è un onesto artigiano di Cinecittà, quarantenne, Tonino Delli Colli, che fino ad allora aveva fatto soltanto commediole in studio. Lui trova la pellicola bianco e nero a grana grossa con la quale girerà facilmente anche sotto il sole pieno. Assistente alla regia è un ventenne vicino di casa, Bernardo Bertolucci, appena tornato da Parigi, dove è impazzito per À bout de souffle di Godard. Le prime riprese gliele chiede Fellini per la sua casa di produzione Federiz.
I due sono amici. Litigheranno appena il regista e i suoi soci vedranno le prime immagini girate, e abbandoneranno il progetto. Pasolini è stato sceneggiatore per Fellini delle Notti di Cabiria, poetica e ultraperiferica storia di una prostituta romana. Sceneggiatore e anche qualcosa di più. Le storie dei Ragazzi di vita, l’esplorazione di una Roma sconosciuta a chi viveva dentro le mura della città, avevano esercitato un profondo fascino sul cinema di quegli anni (ma anche terrore, repulsione violenta e fascista a livelli quasi mai visti nella società italiana). Su suo invito, Pasolini porta personalmente Fellini a scegliere le “location” di Cabiria: i pratoni della Caffarella, le Terme di Caracalla, la piccola borgata di Acilia. Sono luoghi che conosce bene: alcune sono le stesse strade dei suoi pellegrinaggi notturni di battuage, anche se questo particolare spesso si tende a omettere.
Non compare nei credit della Dolce vita, ma possiamo immaginare che alcune location (le ultime di Fellini prima di rinchiudersi a Cinecittà) siano “sue”: la casa popolare nel quartiere Centocelle dove Mastroianni e Anouk Aimée arrivano in spider a fare l’amore; oppure la spiaggia dell’orgia finale dalle parti di Fiumicino. Nello stesso periodo è sceneggiatore e “consulente” per le location di due film di Mauro Bolognini che esplorano ancora il wild side romano: La notte brava e La giornata balorda. Appia Antica, Colle Oppio, Fiumicino, Centocelle. Dentro, come in un presepe, Bolognini con gusto profondamente melodrammatico e queer ci mette gli attori più belli che trova, da Jean Sorel a Tomas Milian a Rosanna Schiaffino e Elsa Martinelli.
Quando arriva al Pigneto quell’estate del 1961, nemmeno ha scelto il luogo a caso: il set principale del film, le strade dove vivono Accattone e gli altri personaggi, sono già state teatro delle avventure dei Ragazzi di vita. Sono anche “le porte della città di Rossellini”, “l’epico paesaggio neorealista”, come si legge in una sua poesia di quegli anni. Pasolini aveva rivisto Roma città aperta all’ultimo spettacolo in un’arena estiva (per i casi della vita quella del Nuovo, che diventerà poi il Sacher di Moretti) e ne era rimasto nuovamente folgorato. Rossellini aveva girato “l’urlo della Magnani” in via Montecuccoli, a poche centinaia di metri – attraversata la Prenestina – da via Fanfulla da Lodi, la stradetta dritta con due file rade di case basse dove la troupe stabilì la sua base.
Pasolini è fiero di non aver chiamato i “gruppi”, le comparse di Cinecittà con tutto il loro folklore cinematografaro, e di lavorare invece semplicemente con la gente del quartiere come un qualsiasi gruppetto di operai (scriverà poi). Conosce perfettamente tutte le strade attorno al Pigneto: la Casilina fino a Torpignattara e al Mandrione, la Prenestina fino ai baraccati dei borghetti. Le gira in macchina di notte. Di giorno ci gioca a pallone coi regazzini. Ninetto Davoli e Franco Citti sono di lì. Ninetto, che è nato nelle arecche del borghetto Prenestino, sarà il suo scandaloso accompagnatore negli anni della popolarità. Franco Citti, Vittorio l’Accattone, è il fratello di Sergio, che è stato il primo cicerone di Pasolini dentro la lingua, il dialetto, gli angoli della periferia romana. Quelle strade ritorneranno nei capitoli più sconvolgenti di Petrolio, il suo ultimo libro mai finito, in un lucido delirio di sesso e politica.
«Via Fanfulla da Lodi, in mezzo al Pigneto, con le casupole basse, i muretti screpolati, era di una granulosa grandiosità, nella sua estrema piccolezza; una povera, umile, sconosciuta stradetta, perduta sotto il sole, in una Roma che non era Roma». Le parole che ricordano il set principale di Accattone al quartiere Pigneto dovrebbero essere mandate a memoria da ogni abitante del quartiere (no, nessuno ha ancora pensato a scriverle su una targa). Oggi via Fanfulla da Lodi non è cambiata nemmeno così tanto, almeno visivamente. C’è qualche casetta bassa in più rispetto ad allora. C’è l’asfalto sulla strada. E alcuni grandi murales con il volto di Pasolini.
Come si sa, il regista fece costruire ex novo il baretto dove il piccolo coro di personaggi commenta la disavventure di Accattone, al numero 50 di una casetta sulla strada, un cieloterra o un terracielo credo si dica nel gergo immobiliare. Per esigenze di ripresa, per stare in piena luce sotto il sole giaguaro di quell’estate (Tonino Delli Colli fa le prove per i western di Leone che girerà pochi anni dopo), per avere spazio di un campo, controcampo e piano lungo. Intanto la troupe si appoggiava al bar Necci – che da più di dieci anni di queste strade è l’indiscusso punto di riferimento – ma era troppo perbene, anche allora, per fare da sfondo alle avventure dei suoi borgatari.
A via Fanfulla da Lodi ci sono i b&b e gli airbnb con i ragazzi che si tirano dietro i valigioni; insomma c’erano, di questi tempi vanno praticamente deserti. Le occasioni perdute, le vanità d’era digitale, le stranezze. La casa dei senegalesi cacciati perché commerciavano in borsette false. Una villetta nuova di mattoni con torretta dalle fattezze mediorientali (starebbe bene in una periferia di Beirut): dicono ci viva un capoccia della comunità bangla, molto presente nel quartiere. Una specie di misteriosa occupazione anarchica all’angolo con via Braccio da Montone aperta quando è aperta, chiusa quasi sempre. Il complesso del forte Fanfulla, quasi del tutto vuoto tranne il Fanfulla, luogo di concerti notturni e eccessivi, uno degli ultimi locali del Pigneto prima maniera.
Nel tempo nostro così “trap” in cui la frattura tra centro e periferia è il simbolo massimo della nostra confusione politica, la benzina che alimenta tutti i populismi di ogni Paese, le immagini di via Fanfulla da Lodi in Accattone ci arrivano ancora come tracce di un attraversamento che va oltre cinema. Pasolini ha inventato letteralmente la periferia di Roma, seguendo la flânerie del desiderio, il capriccio queer dei corpi e delle anime, cercando una forma superiore di conoscenza. Lo ha fatto in un cortocircuito irripetibile tra il cinema, lo spazio urbano e la vita. Di certo in forma radicale – rispetto a se stesso soprattutto – cioè l’unica possibile. Mi piacerebbe aggiungere chic, dal momento che i suoi referenti erano Masaccio, Caravaggio e Johann Sebastian Bach. Un’eredità impalpabile, forse impossibile. Che semplicemente non va dimenticata.