“Fluido” è l’aggettivo più stupido del nostro tempo. Anche perché quasi sempre viene attribuito a fatti o persone che non sanno di (o non vogliono) esserlo. La figlia adolescente di un’amica, al mio cercare, da quarantenne, di descrivere forzatamente la sua generazione, mi ha giustamente risposto: “Ma noi non siamo fluidi o non fluidi, facciamo le cose che facciamo e basta, come le facevate voi”. La sua amica di scuola aveva appena mollato il compagnuccio per una ragazza, e vabbè, fluidità cosa, è successo e basta.
Passages è un film – scritto e girato da un quasi sessantenne, interpretato da tre trenta-quarantenni – che in teoria urlerebbe l’aggettivo “fluido” fin dalla prima scena, ma che quell’aggettivo, con grande intelligenza, lo rifiuta altrettanto dal principio. È una storia di libertà – sentimentale, sociale, pure politica – e basta.
Ira Sachs, americano di Memphis nato cinematograficamente nel circuito ultra-indie (The Delta, Boy-Girl, Boy-Girl, Forty Shades of Blue), s’è fatto conoscere un poco di più da noi dieci anni fa con Keeps the Light On, che ricorda molto questo suo nuovo film; e, più di recente, con il più mainstream I toni dell’amore – Love Is Strange (con John Lithgow e Alfred Molina meravigliosa coppia omo âgée) e Frankie (con Isabelle Huppert su sfondo di villa portoghese, in concorso a Cannes nel 2019).
Con Passages (dal 17 agosto nelle sale con Lucky Red, poi nei prossimi mesi arriverà su MUBI) resta in Europa, per la precisione a Parigi, luogo, evidentemente, di quella poca libertà cinematografica rimasta. La fluidità, (non) dicevo. Tomas (Franz Rogowski), regista, è sposato con Martin (Ben Whishaw). A una festa di fine produzione in un locale incontra Agathe (Adèle Exarchopoulos), le piace, finiscono a letto. È successo e basta
Succedono tante altre cose che raccontano i tempi che viviamo, i confini sempre più labili fra i sessi ma anche i rapporti di potere duri a morire, è sempre la legge del più forte, la donna è destinata a restare schiacciata dal maschiocentrismo anche sentimentale. O forse no: l’apparente vittima delle circostanze è – si vedrà – colei che prende in mano, per costruire o per distruggere, i fili imprevedibili del destino.
Svelo poco perché in Passages ci sono tante sorprese, tanti slittamenti, è un (non) triangolo dove i vasi sono comunicanti o dove al contempo vige l’incomunicabilità, dove tutti pensano principalmente solo a sé stessi, dove l’amore e il sesso sono armi contro gli altri ma anche un boomerang che ti torna contro e ti distrugge.
Sachs, simpatico signore appunto americano (ma ora vive col marito in Uruguay), ha in mente il cinema europeo anche molto classico, il modello dichiarato è L’innocente, ultimo incompresissimo film di Luchino Visconti tratto da D’Annunzio, ne restano tanti piccoli dettagli nascosti o manifesti, compresa una battuta nel finale, sull’uscio di casa. Ma c’è anche Pialat (la sceneggiatura è stata “ripassata” da Arlette Langmann, che aveva scritto il suo magnifico À nos amours), alcuni twist quasi fassbinderiani, una libertà (aridaje) che segue una vague quasi jazzistica anche visiva, compositiva, drammaturgica.
Il gusto – e la necessità – per quel cinema europeo sta anche nella scelta di tre volti che oggi lo incarnano al midollo: Rogowski è il feticcio di Christian Petzold, fra i nomi centrali della new wave tedesca, ma anche dei nostri Gabriele Mainetti (Freaks Out) e Giacomo Abbruzzese (Disco Boy); Exarchopoulos è ovviamente l’Adèle di Kechiche e poi volto di tanto cinema francese volutamente off (splendida la sua svolta da commediante in Mandibules di Quentin Dupieux, passato nella Venezia del Covid); Whishaw l’attore finito in produzioni enormi (James Bond su tutte) ma rimasto fieramente inglese, geolocalizzato in Europa.
C’è una scena cattivissima e bellissima, un notturno in una casa di campagna in cui i tre protagonisti si odiano e si amano tutti, allo stesso tempo. È fluidità? No, sono quei sentimenti lì, è quell’innocenza perduta, è questa storia insieme così falsa e così vera. È successo e basta.