Si chiama “in-yun“, in coreano, il gioco del destino: quell’eterno riconoscersi al di là delle scelte, nella nervosa e impacciata nostalgia di qualcosa che non è mai accaduto. Come un legame invisibile, una connessione indefinibile, un nodo che hai fatto al sentimento per poi (almeno così credi) dimenticartene. Perché l’amore se non lo sai è quella roba lì: ritrovarsi, rincorrersi, sapendo che non si è mai troppo distanti per raggiungersi. O per rimpiangersi. A quel tavolino del bar dove adesso siedono i suoi protagonisti una volta c’era lei; che, nella traduzione sempre impervia e mai del tutto corretta dei silenzi più ingombranti, si chiedeva probabilmente come sarebbe stato uscire per un attimo dall’inquadratura, guardarsi da fuori, là accanto, appena un passo indietro. Magari per chiedersi quale fosse la relazione tra quella donna e quei due uomini, quale la posta in gioco, quanto pesante lo zaino del passato.
Sarà che Celine Song, debuttante che viene dal teatro, 35 anni vissuti in un fiato, sudcoreana che un giorno lasciò il suo Paese per un altro mondo, il Canada, c’è passata; sarà che Past Lives oltre che la nostra è soprattutto la sua, di storia: ma è oltremodo toccante – e struggente – la delicatezza con cui questa “spatriata” gira un film per dire addio non tanto all’altro ma a sé stessa, interrogandosi con profondità orientale più che occidentale sulla persistenza del sentimento e sulla sua idealizzazione, là dove, in the mood for love, smarrito in una connessione debole, tra albe e tramonti che si specchiano e si confondono, perso nel fuso orario di una storia mai davvero cominciata né finita, un amore irresistibile e inspiegabile sopravvive al tempo, alle sue crepe, ai suoi errori.
C’è qualcosa di estremamente elegante e raramente definitivo nel modo in cui Song riordina i frammenti di un discorso perennemente interrotto, una timidezza sussurrata che nasconde una cura, un’attenzione, un’“educazione” non comuni, in quell’attraversare le vite passate che ci portiamo in queste; un romanticismo sincero e non industriale, né commerciale, nel seguire le vite non solo parallele di Nora (Greta Lee) e del suo amico d’infanzia Hae Sung (Teo Yoo) che lascia, quando ancora sono poco più che bambini, per emigrare a New York, dall’altra parte della Luna. Passano dodici anni e a lui viene voglia di ritrovarla: coi social è più facile, o forse no. Ma ne dovranno passare altri dodici perché riescano finalmente a rivedersi. E a capire, mentre la giostra non smette di girare e la vita va avanti, cosa rimane di loro.
Appeso a un bacio non dato, abbandonato alla corrente, estremamente languido (ma in modo tenero, suadente, intrecciato), Past Lives , due candidature all’Oscar (quella più importante, per il miglior film dell’anno, e l’altra per la sceneggiatura originale), tocca corde segrete, come il ricordo di due mani che si sfiorano, non fa che voltarsi indietro ma è sempre proiettato in avanti, ci riguarda anche quando pensiamo non lo faccia: pensi sia un film sull’amore (e lo è, senz’altro), ma è soprattutto un film sulle radici, sulla rivoluzione a cui ci costringiamo, sulle scelte che non possiamo procrastinare per sempre.
Song cita Se mi lasci ti cancello, gioca col mélo senza rimanere invischiata nelle sue ragnatele, si chiede (forse) ogni momento se il suo alter ego ha fatto la cosa giusta. E non contenta di avere due protagonisti meravigliosi, ne trova un terzo altrettanto grande, con cui chiude l’ipotesi di un triangolo che in realtà non è nemmeno tale. Per tornare a sedersi in quel bar da dove forse non è mai uscita: e domandarci se è accaduto davvero o se è stato tutto un sogno. O se forse non fosse, già dall’inizio, un bellissimo film.