Sì, ok: lo so che poi finirà che ci metteranno Taylor Swift, Sinner, magari Putin, Emma Stone e qualche scienziato pop. Però. Però tra i personaggi dell’anno ancora in fasce, quando sarà l’ora dei bilanci e dei tappi di bottiglia che volano, trovate un posto anche per lui. Portatevelo nel cuore, vogliategli bene, che mica è difficile, anzi. Perché nei prossimi 12 mesi – e non ci vuole Nostradamus per capirlo e nemmeno l’oroscopo di Paolo Fox – di uomini come Hirayama, addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo, ne incontrerete (purtroppo per voi) pochi.
Uno che ascolta musica americana nelle vecchie cassette, usa ancora una macchina fotografica col rullino, legge libri che compra in edizione economica, va in bicicletta, non ha la Tv né la lavatrice. E fa sogni in bianco e nero: per affrontare, nel corso del tempo, lo stato – solo apparentemente immutabile – delle cose. Una perla rara, un invisibile che vorrete vedere, un uomo che parla poco ma ha molto da insegnare; e che, nonostante tutto, trova modo e tempo di accennare un sorriso, anche quando magari gli scappa la lacrimuccia. Perché sa che “adesso è adesso”.
È analogico e vintage, con quel 4/3 che racchiude nello schermo un piccolo (e altro) mondo, l’ultimo, poetico film dell’amico ritrovato, Wim Wenders. Un figlio della Germania-anno zero, delle macerie, che va per le 79 primavere e che per più di una generazione (dai ’70 ai ’90) fu un autore-mito, un cineasta di riferimento. Ma che negli ultimi vent’anni, a parte qualche bellissimo documentario (e dici poco…), sembrava però smarrito o comunque ai margini nel cinema di fiction, nel racconto della contemporaneità, nel copione dei sentimenti.
E invece, tornato in Giappone – sulle tracce del cinema trascendente di Ozu – a quasi 40 anni da Tokyo Ga, ti spara la playlist dei sogni (da Lou Reed a Janis Joplin, da Van Morrison a Nina Simone…) partendo ogni mattina all’alba con gli Animals (The House of the Rising Sun, ovviamente) nelle orecchie, per raccontare, in una città che lo affascina da sempre, le giornate sempre uguali e “perfette” di un meraviglioso antieroe, a cui un attore con la faccia a forma di rimpianto, lo strepitoso Kōji Yakusho (premio per il migliore interprete maschile all’ultimo Festival di Cannes), presta silenzi, sguardi, emozioni.
La sveglia che suona sempre alla stessa ora (presto), il lavoro umile svolto senza mai lamentarsi, la pausa pranzo al parco, il bar. Un uomo solo, ma mai disperato, attento ai dettagli, alle piccole cose, a una disciplina e a un rigore che, anche nella ripetizione infinita del gesto, sfocia nel comportamento etico di chi non si sottrae a ciò che ha scelto di essere. Sembra non succeda niente e invece accadono moltissime cose: un bimbo che si è perso, un bacio sulla guancia, una nipote scappata di casa, uno sconosciuto con cui giocare a tris, un uomo che, in attesa della fine, calpesta le ombre. Come piccole crepe da cui filtra la luce, come i tagli di Fontana su una superficie di un solo colore.
Tu chiamali, se vuoi, Perfect Days: storie inaspettate, incontri imprevisti, leggerissime deviazioni che incrinano la routine del protagonista di questo manifesto umanista, educato e gentile, che il maestro tedesco ha girato in giapponese, guardando anche a Zavattini, Jarmusch, Kaurismäki. Senza sprecare il fiato (il primo dialogo è dopo 12 minuti), ma trovando sin da subito la cifra e la delicatezza giusta. Giocando tutto sulle lievi, quasi irriconoscibili increspature di una vita solo apparentemente banale, in un lento svelamento dell’anima dello scrupoloso addetto ai bagni pubblici che sembrano astronavi.
Un film tenero e malinconico, quello di Wenders, una parabola sull’essenziale: un’ode alla semplicità, ma anche alla grande dignità di chi, tagliati i ponti col passato, continua a guardare un presente che cerca di rendere, con innocente ottimismo, più pulito, più vero. Sarà: ma il cielo sopra Tokyo non è mai stato così lindo, così libero. E così azzurro.