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Polanski ci accusa tutti

'L'ufficiale e la spia' parla di un celeberrimo caso giudiziario di fine '800 ma denuncia l'intolleranza di oggi. E una macchina del fango che non risparmia nessuno (soprattutto il regista)

Jean Dujardin e Louis Garrel

C’è qualcosa di molto contemporaneo in questo film apparentemente molto classico: c’è Polanski, innanzitutto. Non quello sorridente di C’era una volta a… Hollywood, la favola di Tarantino: ma l’esule, l’imputato, il convitato di pietra che diserta i festival e viene fotografato, anziano e solo, seduto sulle scale di un altro dubbio, nel labirinto di un’ennesima accusa.

E poi c’è il potere: universale e sempre tremendamente uguale a se stesso in quel suo autocompiacersi, in quel continuo alimentarsi delle sue stesse menzogne, in quel restare eternamente ancorato all’immagine che ha costruito di sé, a costo di negare l’evidenza, a costo di rompere lo specchio. Ha ragione l’autore premio Oscar del Pianista: nell’epoca delle post-verità contano solo le emozioni, la pancia. Non i fatti. Che sono l’unica cosa però – e Polanski (così come Dreyfus) lo sa – che non può essere cambiata.

C’è la fede etica e laica di chi sceglie di ascoltare la propria coscienza, la guerra dichiarata all’ottusità di un’umanità che – ieri come oggi – non si può permettere il lusso di ammettere i propri errori, l’orrenda, violenta, idiozia di un popolo bue che brucia i libri e rifiuta la verità nell’ultimo, integerrimo, film di un regista colto e geniale: che lancia il suo personalissimo “j’accuse” contro una società antisemita, xenofoba, pericolosamente sovranista. Di fine ’800? Certo: eppure per molti versi, e in modo inquietante, molto simile alla nostra.

Nel rievocare l’affaire Dreyfus, la storia del capitano francese di origine ebraica condannato – da innocente – per tradimento, Polanski decide consapevolmente di non sbagliare nulla: ogni cosa è al suo posto, persino la polvere è in quello giusto. Perché ciò che conta è che – come avverte una scritta in calce sui titoli di testa – «tutti i fatti narrati sono realmente accaduti». Non si scappa, non ci sono vie di fuga. Né mezze verità: perché la verità è una sola. E tutto il film, la stessa idea di cinema di Polanski va in questa direzione: vedi centinaia di divise e capisci che non c’è un effetto digitale, non c’è una mistificazione del reale. Ma comparse allineate già all’alba, al freddo, impettite e in silenzio: perché è così che bisogna fare.

Colpisce il rigore, la grandissima attenzione, la robusta impalcatura narrativa dell’Ufficiale e la spia: e a nessuno sfugge che il regista si rivede senza dubbio alcuno in quel militare perseguitato ingiustamente, lui che da oltre quarant’anni è inseguito dalle polemiche, dalle accuse, dai sospetti. L’orrendo complotto, la stampa manipolata, la battaglia giudiziaria, la macchina del fango: in un ieri che è ancora oggi, Polanski sceglie di resistere. E si affida, con una scelta molto indovinata, non allo scontato punto di vista della vittima ma a quello del suo persecutore (ottimo il lavoro di sottrazione di Jean Dujardin): costretto a ravvedersi. E, nella lotta contro il muro di gomma, a redimersi. Per non tradire la propria coscienza e il culto di una verità per cui i veri uomini sono pronti a sacrificare tutto.

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