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Polanski – Dreyfus, il regista polacco affida la difesa al suo cinema

Dopo l’affondo inaspettato della presidente di Giuria Lucrecia Martel, a Venezia 76 è il giorno del Dreyfus di Roman, che risponde: «Chi mi attacca non mi conosce e non sa nulla del caso»

Foto: Getty Images

Il caso Polanski e l’affaire Dreyfus. Il primo tiene banco al Lido fin dal primo giorno, da quando la presidente di giuria Lucrecia Martel ha dichiarato che non avrebbe partecipato alla serata di gala in onore di J’accuse, il film del regista polacco in concorso, perché incapace di scindere l’arte dall’uomo, ricercato dalla polizia USA e perseguitato dalle polemiche per la condanna per “rapporto sessuale con minorenne” del 1977. La produzione poi ha minacciato di ritirare l’opera dalla competizione, ma il chiarimento con la Martel ha fatto calmare le acque.

Il secondo è una delle pagine più oscure della storia francese, lo scandalo politico che ha diviso il Paese nel 1894 e per il quale Émile Zola ha scritto il suo celeberrimo J’Accuse: l’ingiusta condanna per tradimento di un ufficiale ebreo, Alfred Dreyfus.

Insomma il messaggio è chiaro: Polanski come Dreyfus. “Perché non reagisco? Perché sarebbe come combattere contro i mulini a vento”, ha dichiarato il regista in una delle rarissime interviste concesse e inclusa nei materiali stampa del film. “Da ebreo perseguitato in tempo di guerra e regista perseguitato in patria, sarà in grado di sopravvivere al maccartismo neo-femminista?” gli è stato chiesto per le note del press book. “Un film come questo mi aiuta molto”, ha risposto Polanski, “ho ritrovato esperienze personali, la stessa determinazione a negare i fatti e a condannarmi per reati che non ho commesso. La maggior parte delle persone che mi molestano non mi conoscono e non sanno niente del caso”.

Fisicamente in conferenza stampa non c’è, ma la non presenza di Polanski è comunque ingombrante. A chi sottolinea che i rapporti di forza con il potere, la tematica della persecuzione e la ricerca della verità sono una costante di molti dei suoi lavori, la moglie Emmanuelle Seigner (tra i protagonisti del film) replica: “Questo sentimento è molto semplice da comprendere, basta pensare alla sua vita. Oggi festeggio 30 anni di matrimonio con lui e so bene di cosa parlo”.

J’accuse è molto di più di un film storico: è un thriller politico, un lavoro di denuncia potente, sontuoso, elegante, è grande cinema. Jean Dujardin interpreta il colonnello Picquart, vero eroe della vicenda e protagonista del racconto, che combatte per far emergere la verità: “Ho affrontato questo ruolo con molto pudore e ricordandomi che la star del film era il caso stesso. Dovevamo lavorare tutti al servizio della storia. È quello che fa Polanski quando gira: per lui conta la verità a qualsiasi costo. Auguro a tutti gli attori del mondo di girare con Roman Polanski, è come sentire la voce di uno sciamano che ti guida con grande intelligenza”.

Alfred Dreyfus ha il volto di Louis Garrel, che non fa in tempo ad aprire bocca in italiano che parte l’applauso: “A 36 anni ho scoperto la vera storia dell’affaire che tutti in Francia conoscono, senza però conoscerlo davvero. Polanski sul set mi ha presentato una discendente di Dreyfus. La sua famiglia ha vissuto anche un altro inferno, quella della deportazione durante l’Olocausto”. Altri applausi. “Sono per il mio italiano?”, prova ad alleggerire il clima Garrel.

Luca Barbareschi, tra i produttori e gli interpreti del film, chiarisce che l’affaire Polanski a Venezia 76 è chiuso: “Non è un tribunale morale ma una Mostra del Cinema. E l’arte è bella e libera”. Sui possibili condizionamenti della giuria Barbareschi è sereno: “Il passato è passato. Il film deve parlare e la giuria giudicare”. Avanti con la Mostra.

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