C’è un momento molto preciso che ha fatto la Storia del cinema postmoderno (sì, si dice così). 23 maggio 1994, Festival di Cannes. I rumors vedevano lanciatissimo Krzysztof Kiełlowski con Film rosso. “Credevamo di ricevere al limite una sorta di riconoscimento speciale, ad esempio per il miglior ensemble”, avrebbe poi raccontato il produttore di Pulp Fiction Lawrence Bender, ricorda l’Hollywood Reporter. “Quando era ormai chiaro che non avevamo vinto nulla e che nemmeno Kiełlowski aveva vinto nulla, Quentin e io ci siamo guardati e abbiamo pensato: ‘Merda, potremmo vincere davvero’”.
Clint Eastwood, presidente di giuria (e, vale la pena ricordarlo, icona assoluta per Tarantino), annuncia che la Palma d’oro va a Pulp Fiction. Gioia, gaudio, tripudio ammerigano nel francesissimo Palais des Festivals. Bruce Willis abbraccia John Travolta (gli anni ’90, sigh!), Tarantino fa lo stesso con Harvey Wenstein (ok, questo non è invecchiato benissimo, ma è un’altra Storia), Kathleen Turner non smette di dire “Wow” e accoglie sul palco un Quentin appena 31enne con il suo (super) cast. Mentre Tarantino sta per pronunciare il discorso di ringraziamento, una donna, prontamente inquadrata dalla regia, urla: “Kiełlowski! Kiełlowski! Pulp Fiction fa schifo”. E Tarantino le mostra un tarantinianissimo dito medio: “Non mi aspetto mai di vincere qualcosa quando c’è una giuria che deve decidere, perché non faccio dei film che uniscono le persone. Anzi, faccio dei film che dividono”, ha detto Q.
E invece. In un’intervista dell’American Film Institute (AFI), Eastwood ha poi rivelato le prime reazioni al film da parte dei giurati il 21 maggio, giorno della première. “Se ne parlava molto, ma abbiamo cercato di stare lontano dalle chiacchiere. Ci siamo seduti, l’abbiamo guardato e ha coinvolto tutti subito… Sono rimasto stupito, i colleghi europei sono saltati in piedi, un paio di loro si sono voltati e mi hanno detto: ‘Questo è il miglior film di questo festival’”, ha ricordato il regista. “Io ci stavo ancora pensando, ma era davvero interessante, emozionante, rinfrancante ed è arrivato in un momento, dopo un paio di film un po’ fiacchi, in cui avevamo bisogno di essere scossi… quando sono entrati nella sala della giuria, tutti erano d’accordo sul fatto che quello sarebbe stato IL film”. È il sigillo dell’establishment alla rivoluzione: il mainstream che incontra il genere spinto e partorisce un pezzo di cinema pop purissimo, capricciosamente tarantiniano (che sì, intanto è diventato un aggettivo, come non), la narrazione non lineare (che avrebbe fatto scuola) i dialoghi iper-realisti e meravigliosamente logorroici, la violenza esplicita e goduta, la cinefilia (cito soltanto Un bacio e una pistola e Bande à part, ma QUANTI altri) la colonna sonora che punteggia e travolge, uscita direttamente dalla collezione di dischi di Quentin.
“Ha cambiato il cinema e ogni regista che abbia mai incontrato”, ha detto Uma Thurman nelle scorse settimane a una proiezione speciale per i 30 anni del film. E ha cambiato la cultura pop. Cito, di nuovo, in ordine sparso: il meme “confused John Travolta”, il Royale with Cheese, il portafoglio con scritto “bad motherfucker”, il milkshake da 5 dollari, la famigerata valigetta, la fissa di Quentin per i piedi, il caschetto nero con la frangia di Mia Wallace (quanti costumi di Halloween, QUANTI), “sono il Signor Wolf, risolvo problemi” (plus nove minuti e 37 secondi), il Big Kahuna Burger, Ezechiele 25:17, il twist sulle note di Chuck Berry. Choose your fighter.
Ma ogni regista (o attore o artista che dir si voglia) ha un critico che è la sua nemesi, lo racconta benissimo Margherita Buy nel delizioso Volare. Per Tarantino è Kenneth ‘Kenny’ Turan del Los Angeles Times ed è interessante vedere Pulp Fiction attraverso i suoi occhi, ci arriviamo. Scrive Quentin stesso nel suo Cinema Speculation, più che un romanzo un saggio di formazione cinematografica à la Q: “Turan era un vero critico. Ma un critico che non ti faceva venire voglia di leggerlo. Ora va detto che, per tutto il corso della mia carriera, Kenny – che pure scriveva sul giornale della mia città – decise di essere la mia nemesi. Non solo fu l’unico a parlare male di Pulp Fiction, ma la sua recensione andava oltre la stroncatura di un film che non gli era piaciuto: aveva un secondo fine. Quello di controbattere gli inusitati peana che Todd McCarthy e Janet Maslin avevano scritto su Variety e sul New York Times.
I peana recitano così: “Un pezzo di cultura pop straordinariamente divertente, Pulp Fiction è l’American Graffiti dei crime violenti” e “Un viaggio trionfante e abilmente disorientante attraverso un demimonde che scaturisce dalla matura immaginazione di Tarantino, un orizzonte di pericolo, shock, ilarità e colori vibranti. Niente è prevedibile o familiare in questo mondo irresistibilmente bizzarro. Non si entra in un cinema semplicemente per vedere Pulp Fiction: si entra nella tana del bianconiglio”. Per Turan invece “sì, il regista sta scrivere, ma merita tutto questo hype?”, Continua: “La parola ‘noioso’ non è stata molto usata nel descriverlo, ma ci sono lunghi momenti in cui si adatta fin troppo bene. È sporadicamente efficace (…) ma in verità questo è un film notevolmente disomogeneo, troppo chiuso in se stesso ed egocentrico nelle sue preoccupazioni e troppo rivolto all’esterno nel modo in cui si sforza di indignare il pubblico, per avere davvero successo”. E ancora: “Se il tipo di lavoro che Tarantino fa meglio è la direzione che sta prendendo il cinema americano, dovrà arrivarci senza di me”.
Avanti veloce: il 27 marzo del 1995, Pulp Fiction, nominato a sette Oscar, porta a casa quello per la sceneggiatura originale, come aveva profetizzato Steven Spielberg durante una caccia alle anatre (#tuttovero) a cui aveva invitato Tarantino: “‘Penso che tu non vincerai l’Oscar per il miglior film, credo che quello andrà a Bob (Zemeckis per Forrest Gump, nda) così come l’Oscar per la miglior regia, ma sono sicuro che vincerai per la migliore sceneggiatura originale’”, ha ricordato Quentin un paio di anni fa durante il programma radiofonico di Howard Stern. “In quel momento si girò verso di me, mi guardò e disse: ‘Il piccolo uomo d’oro al secondo film… niente male’. Sentir chiamare l’Oscar “little gold man” è stato fantastico”.
Quando quel little gold man lo va a ritirare, annunciato da un Anthony Hopkins entusiasta, dice: “Grazie! È stato un anno molto strano. Sapete cosa? Credo sarà l’unico premio che porterò a casa stasera e allora potrei dire un sacco di cose, tutto quello che mi frulla in testa da tutti questi mesi. Ma non lo farò”. Di, nuovo, tarantinianissimamente, prende l’Oscar e se ne va. Tutto bello Quentin, però ricordati che ci devi almeno un altro film.