“Io non sono così”, si legge continuamente in Queer di William S. Burroughs, e si sente ora nel bellissimo film che ne ha tratto, dopo una vita che lo voleva fare, Luca Guadagnino. Io non sono frocio, sarebbe. È la parola usata in quelle pagine e, ora, sullo schermo. Il romanzo letteralmente della vita di Burroughs (oggi sarebbe liquidato con: autofiction) uscì da noi, nella prima edizione, col titolo Checca. Oggi finirebbero tutti in galera.
Ora Queer ha preso, anche fortunatamente, altri significati, è stata accolta nel lessico mainstream, s’è piegata a un uso diverso, che ora sarebbe liquidato con: inclusivo. Ed è giusto, perché il queer originale di Burroughs vale sì come frocio, ma è pure molto altro. “Io non sono così” era una negazione dell’omosessualità percepita, al tempo, come demascolinizzazione. Ma “Io non sono così” anche perché so che non sono come gli altri, non sono come voi. Al di là del sesso, della condanna all’esilio, alla solitudine.
Anche Luca Guadagnino non è mai stato così, non è mai stato come gli altri. È fuggito dal sistema del cinema italiano, se per sistema del cinema italiano s’intende l’industria romana. È stato per questo osteggiato, accolto altrove restando però apolide, e da qualche tempo – col senno di poi però son capaci tutti – è stato riaccolto in patria come l’autore che è sempre stato, che è oggi più che mai. Queer è il progetto della vita, anche per lui. Un film che voleva/doveva fare da sempre, ma anche – lo si capisce vedendolo – che poteva fare solo adesso. Dopo tutto quello che il suo cinema è stato, dopo tutto quello che Guadagnino è diventato.
Ho letto Queer quest’estate, e sono pochi i film tratti dai libri davanti a cui dici: oddio, è tutto preciso preciso come l’avevo immaginato. Il girovagare allucinato di Lee, cioè Burroughs, per i bar di Città del Messico, che sono esattamente i posti che avevi visto tu. Le fiammeggianti mosche da bar in attesa di qualcosa, qualsiasi cosa. E poi l’incontro con il giovane Gene (ma, qui, sulle note di Come as You Are), e pure le giacche di lino che Lee indossa, e i libri che legge (per esempio, Appuntamento a Samarra).
E però, nella fedeltà quasi religiosa nei confronti del romanzo (del regista, ma anche dello sceneggiatore Justin Kuritzkes, lo stesso di Challengers), Guadagnino trova lo spazio personale per il suo film probabilmente più intimo, certamente ispiratissimo, pieno di cose che sono solo sue, il mystery of love e il gioco della seduzione, fino al body horror (c’è una splendida scena in cui l’amore diventa davvero “la pelle che abito”).
Queer è il racconto di un viaggio al termine della notte, e dunque al termine di sé stessi, dove nessuno vuole/può arrivare. Ma Lee sì, sa che è lì che deve mirare, per questo non è come gli altri. È un viaggio allucinato, disperato, ma anche vitale, lussurioso come i corpi e le piante, goduriosissimo a vedersi.
Città del Messico è stata ricreata a Cinecittà, ed è un set meraviglioso come quelli dei film anni ’40-50, dal Tesoro della Sierra Madre all’Infernale Quinlan, a cui Queer rimanda per gusto per l’esotismo e uso del divismo (però con un personaggio omosessuale che scardina tutto). È un Messico finto e verissimo, svelato, sempre alla fine, dal modellino dell’hotel in cui vive Lee, che rende ancora più vera questa letterale messinscena.
E poi – dicevo del divismo – c’è Daniel Craig. Dal James Bond tra los muertos di Mexico City al morto che adesso è lui nella stessa città appiccicosa, in quelle stanze d’albergo tra Professione: reporter, e Il tè nel deserto, e inevitabilmente Il pasto nudo. Qui il reporter è lui, ma, dicevo, l’indagine è solo su sé stesso. Cerca – nella dipendenza dalle droghe, nel sesso – la chiave per capire, per capirsi. Sogna di trovare il suo tesoro sepolto nella giungla, la droga miracolosa che attiva la telepatia: ma solo per riuscire parlare con i suoi fantasmi, con l’oscuro, con l’immateriale. E difatti, alla fine, questo film di corpi, di seduzione, di pelle e di sudore finisce per smaterializzare tutto fino al niente, fino al tutto.
Craig è eccezionale, nelle movenze, nella voce, nell’equilibrio tra aggressività e fragilità (l’impacciato corteggiamento di Gene, la prima scena erotica tra i due), nel concedersi tenendo sempre a freno il possibile sbraco (il piano sequenza della “pera”, pardon, è stupefacente). È, anche per lui, il film della vita? Probabilmente sì. Attorno a lui tanti volti giustissimi, il maliziosamente virginale Drew Starkey (cioè Gene), il queerissimo Jason Schwartzman, la rabbiosa Lesley Manville (unica licenza rispetto al libro, dove il personaggio è un uomo).
La tequila, il viaggio, il sesso, un colpo di pistola (ma in chiave totalmente anti-007). Un film visto al cinema, in due, dove il corpo dell’uno prova a staccarsi per abbracciare l’altro: ma la distanza è incolmabile. L’importante è perdersi nell’intrico, qualunque esso sia, fino alla destinazione di quel viaggio che facciamo sempre da soli, e che non riaggiusta niente. “Il nostro amore crescerà ancora, più vasto degli imperi”. Sono alcune delle ultime parole di Burroughs, le canta Caetano Veloso nella canzone sui titoli di coda. E forse la materia si ricomporrà, da qualche parte, alla fine o all’inizio di un altro viaggio.