Tutto l’occorrente per fare la Creatura era stipato nell’oscurità di un comune garage, da qualche parte a Los Angeles all’inizio degli anni Settanta. Quando Mel Brooks scoprì che Kenneth Strickfaden, set designer e creatore degli effetti visivi del Frankenstein del 1931, aveva tenuto con sé le apparecchiature del film con Boris Karloff, prese due decisioni. La prima fu usare proprio quelle nel film che lui e Gene Wilder avevano in testa, e che dalla Columbia avevano portato alla 20th Century Fox perché fosse accettata l’idea del bianco e nero. La seconda fu concedere all’uomo che da allora sarebbe passato alla storia come l’elettricista di Frankenstein la meritata gloria e il nome nei titoli di coda che negli anni Trenta gli era stato negato.
Quell’apparecchiatura plumbea, dalla patina rétro e così giusta, coniugata al bianco e nero per il quale così cocciutamente autore e regista avevano battagliato senza recedere di un passo, fu uno dei colpi di genio di un film che di colpi di genio ne conta forse più di qualunque altro. Esattamente come la storia che intendeva raccontare, e parodiare, ed esaltare Frankenstein Junior è la cronaca di un esperimento folle in cui tutte le componenti vanno clamorosamente a posto per creare il miracolo.
Allo scoccare dei cinquant’anni dall’uscita in sala, tempo che non l’ha coperto di alcuna patina e non l’ha minimamente gravato del peso del culto generazionale (qual è il plurale del culto di più generazioni? Si può dire, cult generazionali? Si-può-fare?), possiamo stare sicuri che Young Frankenstein è realmente, di per sé, una Creatura. Inimmaginabile. Improbabile. Frutto di tanti particolari messi insieme e collegati da una benedizione e dall’elettricità.
Cinquant’anni dopo recitiamo a menadito quel formidabile elenco di menti e corpi come fosse la formazione di una delle squadre più amate della storia: Mel Brooks, Gene Wilder, Marty Feldman, Peter Boyle, Teri Garr, Cloris Leachman, Gene Hackman. E fu davvero uno squadrone, per vederlo all’opera continuavano ad aggiungere scene pur di non far finire le riprese. A tirare fuori dal nulla un’illuminazione dopo l’altra, come quella gobba di Feldman una volta a destra e una a sinistra per prendere in giro la crew, e poi portata dentro al film. Come quel “Ma dove vai? Volevo offrirti una sambuca!” sparato a sorpresa da Gene Hackman nei panni dell’eremita, che costrinse il montaggio a scappare veloce verso una delle tante dissolvenze a nero del film, perché si sentiva la troupe ridere. L’eremita non doveva neanche esistere. Fu Gene Hackman a estorcere a Gene Wilder la promessa di scrivergli un ruolo apposta, durante una partita di tennis che oggi ha del mitologico: Gene vs. Gene, altro che Borg-McEnroe. Questo è stato Frankenstein Junior: un luogo unico nella Storia del cinema dove ogni cosa è illuminata.
Forse niente ha messo tutti d’accordo come questo film. Giudizi e box office, critica contemporanea e pubblico d’ogni decennio, sofisticati umoristi e odierni memologi, gusti del tempo e dei tempi, cavalcati senza colpo ferire da un prodotto giovane e affascinante per sempre, come nel mito dell’immortalità al quale tende tutto il suo albero genealogico: la fonte letteraria nobile, e un futuro nello stesso posto. Erano altrettanto destinate a diventare letteratura le gag, i calembour e le trovate linguistiche, persino quelle che in teoria non c’erano. È ormai antologia l’adattamento curato da Mario Maldesi, universalmente riconosciuto persino superiore all’originale, con soluzioni leggendarie come “lupo ululà, castello ululì” al posto del già esilarante “werewolf-there wolf-there castle“. Sbagliato, non è leggenda: è, per l’appunto, miracolo. Come puoi spiegarlo diversamente, il mai visto prima e allo stesso tempo irripetibile, l’espediente arrabattato che diventa elettrica creazione da pezzi precedenti?
Un’idea potente, ridere con Frankenstein. Ma non così folle, dopotutto. A oltre duecento anni dalla notte in cui sul lago di Ginevra, a Villa Diodati, Mary Shelley sbaragliò la concorrenza nella sfida all’inventare la migliore storia del terrore, umorismo e provocazione sembrano un po’ congeniti all’idea stessa del mostro di Frankenstein. Un’idea così terribile e perversa da contenere in sé il germe dello sberleffo più dissacrante. Non fosse altro perché, da imbucata tra i maschiacci in vena di spaventarsi, la storia più figa per distacco, destinata all’eternità, fu proprio quella di Mary Shelley. Ma forse non è tutto qui. “Credo che inconsciamente abbia voluto raccontare, al contrario dell’invidia del pene, che gli scienziati, gli uomini, hanno l’invidia dell’utero”, ha detto una volta Mel Brooks, nel documentario It’s Alive: Creating A Monster Classic. “Che abbia voluto scrivere che un uomo vorrebbe creare la vita, le donne invece possono”.
Proviamo a raccontarlo come uno dei film comici più grandi di tutti i tempi, ma far stare Frankenstein Junior esclusivamente dentro il genere comico, dentro un solo genere qualunque, è come voler usare al posto di quello di Hans Delbrück un cervello ab-norme. A fine ottobre Young Frankenstein è tornato nelle sale italiane, in anticipo sul suo cinquantesimo compleanno: usciva in quelle statunitensi il 15 dicembre del 1974. Ma il tempo giusto non è mai stato un problema per un film cocciutamente in bianco e nero, ostinatamente anni Trenta nel suono, nel concetto, nella messa in scena e persino (e soprattutto) nell’allestimento scenografico, a omaggiare un tempo e un cinema e altresì a consacrarsi, una dissolvenza dopo l’altra, fuori da qualsiasi tempo. A sfondare la porta e andare ad abitare fuori, nell’onda lunga di un fenomeno per certi versi ancora inspiegabile. Enorme, come uno schwanzstück memorabile, capace di far colpo all’istante, e conquistare l’eternità.