Nell’Odissea secondo il drammaturgo Bob Wilson, a un certo punto, compare in scena un carrello della spesa con dentro un panda di peluche. Si trattiene per un paio di secondi, fantasma di un sogno interrotto a metà nel dormiveglia. Un respiro ed è andato. Una percentuale di tempo ridicola rispetto alla durata dell’intera performance, eppure rimane “la” cosa da portarsi a casa. Che cosa non avremo capito? Quale realtà inaccessibile ci è stata svelata?
Sembra un punteruolo su un mondo che non esiste, e parla seguendo le associazioni di un daydreaming liminale, a metà tra notte e giorno. Obbligati a considerare il panda, ripensiamo gli schemi del possibile. Stesso effetto che potrebbe sortire una qualsiasi logline di un film di Quentin Dupieux: una ruota killer sfreccia sull’asfalto e taglia la testa ai propri nemici (Rubber); un fanatico dello scamosciato incontra una matta e creano una folie à deux (Doppia pelle); due perdigiorno rubano un’auto e ci trovano dentro una mosca grossa come un cane (Mandibules – Due uomini e una mosca). Storie che si consumano nel giro di 90 minuti massimo, appena il tempo di entrare in un mondo in cui tutto è possibile e, per di più, accade. Un soffio, volano via. E lasciano con un palmo di naso: scusa, che?!
Ok: Dupieux, come Wilson, non ha mai dato l’impressione di essere schiacciato dalla sospensione del giudizio dello spettatore, più interessato ad acchiappare il lembo tra il vero e l’impossibile che a far fede a un qualche principio di realtà. Alla regia esordisce nel 2007 con Steak, spirito da B-movie e movenze da pulp americano. Nel cinema non è nativo ma ha attraversato dalla musica, insegnandosi da sé quanto serviva. Ed è l’ex ragazzotto che, a 24 anni (correva il 1999), ha fatto impazzire il mondo facendo debuttare Flat Eric – un ibrido orso-topo-squalo di pezza, fabbricato dal Jim Henson’s Creature Shop, casa-madre dei Muppets – in un video commercial della Levi’s. Anche la musica è sua, Flat Beat. Il suo nom de plume, Mr. Oizo. Come Michel Gondry prima di lui (per rimanere in ambiente francese) e tutta una serie di successori poi, Dupieux si fa prima smanettone che regista, e il suo stendardo recita un motto wildeiano: art for art’s sake, arte fine a se stessa.
È vero: prendere senza il proverbiale pizzico di sale l’autore del Ritratto di Dorian Gray potrebbe essere rischioso, e di certo anche il suo naso si sarebbe storto al pensiero di questa estetica da maker applicata alla creazione artistica. Eppure, il divertimento – forse, divertissement – ostinato con cui Dupieux affronta la macchina da presa, fregandosene di che cosa un film “dovrebbe essere” o “comunicare”, rende immediato il pensiero, romanticissimo, di uno che decide di girare per il solo gusto di farlo, spesso circondato da una crew di fidatissimi.
Ha “quell’aria”, Dupieux, polo di attrazione per chi ha idee e voglia di farle accadere, e non è raro che in un anno si assommino più sue uscite in cartellone. Jean Dujardin, Adèle Haenel, Blanche Gardin, Adèle Exarchopoulos, Thomas Bangalter (Daft Punk), Charli XCX (nel video che resuscitò Flat Eric): non per la gloria, forse non per la storia, ma per la libertà, che ci si associa con il Mr. Oizo fattosi cineasta e che dalla musica si porta dietro la mano pesante, l’assenza di compromesso fino alla brutalità sonora (ascoltare per credere). Anche se, come ambito, ammette che non gli piace nemmeno più di tanto, che è un ignorante, e giudica i suoi brani come «concettuali… naïf». Dapprima inserita come colonna sonora dei suoi film, poi presa in giro come fittizio ascolto di fittizi cool kids in Wrong Cops, Mr. Oizo, alla fine, ha lasciato il passo a Dupieux («[La musica] li stava inquinando [i film]. Lo ammetto: molta della mia musica è stata creata perché fosse una tortura»). E infatti, la colonna sonora di Daaaaaali!, presentato alla Mostra di Venezia del 2023, è stata curata da Bangalter (per non perdere lo spirito del French Touch).
Anno peraltro particolarmente prolifico, il 2023, per Dupieux, che ha bissato i risultati del 2022 (in cui uscirono sia Incredible But True che Il fumo provoca la tosse, superhero movie-parodia ispirato ai Power Rangers) aggiungendovi una produzione in più: A notre beau métier, quello che dovrebbe essere il suo prossimo film, con Léa Seydoux, Vincent Lindon e Louis Garrel, è già pronto, organizzato in due mesi e girato in due settimane. Secondo Seydoux, sarà «una satira costruita attorno a un gruppo di attori che deve recitare in un film terrificante. Gli attori si troveranno di fronte ai loro stessi personaggi, battute assolutamente di petto, ogni ruolo sarà doppio. Vincent Lindon interpreta un attore, che interpreta mio padre. […] È folle, e molto, molto divertente».
Non che le riflessioni “meta” sul medium-cinema fossero mai mancate, in Dupieux (chi ne capisce direbbe: straniamento, sempre per tornare al panda nel carrello). La sfida a quello che “dovrebbe accadere” è sempre dietro l’angolo: date queste premesse… e invece, non succede mai. Specialmente, però, il secondo film presentato “a sorpresa” l’anno scorso sembra accordarsi con la riflessione da personaggi in cerca d’autore di A notre beau métier, come a scaldare i motori prima di un passo più lungo. Il titolo è Yannick – La rivincita dello spettatore, esce oggi nei cinema italiani, ed è stato premiato con l’Europa Cinemas Label Prize al miglior film europeo al 76esimo Festival di Locarno.
La trama: in un piccolo teatro di Parigi (lo ricordiamo, luogo natale di Dupieux) va in scena una commedia degli equivoci piuttosto mediocre. Uno spettatore armato, Yannick (Raphaël Quenard, collaboratore di lungo corso di Dupieux), si alza e interrompe lo spettacolo: sostiene di aver pagato per divertirsi, non per vedere quelle scemenze lì, e ora prenderà in mano la situazione. Ha con sé una pistola, e se è vera la massima di Čechov per cui un’arma vista in scena prima o poi sparerà… eccetera, eccetera.
La speculazione non è, naturalmente, lecita; le previsioni, nulle. Dupieux segna, nelle note di regia: «Il 99% dei film sono noiosi. Questo no». Potrebbe essere una certezza, piazzata strategicamente. O una deviazione elegante dalla riflessione dall’arte, sull’arte, intavolata in una perfetta unità di tempo e luogo aristotelica. Perché anche nella cornice più quadrata, in qualche modo, uno spiraglio per un panda si trova sempre. Anche tra le pareti da trattatello contenute dietro il busto simil-romano che campeggia sui titoli di testa, la diagonalità, l’obliquità dello sguardo può bucare.
Oppure sarà solo l’ennesimo tentativo di vincere la sfida intellettuale con un regista provocateur, il cui unico scopo, a conti fatti, è far avvenire l’opera. A voi il giudizio, tenendo sempre bene a mente: considerate il panda, ma non crucciatevi. Anche non capire, in fondo, è una forma di complicità narrativa (e Dupieux e i suoi personaggi ce lo posso insegnare senza mezzi termini).