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‘Road House’ è un remake (ultra sanguinario) che per una volta funziona

Mantenere il vecchio, ma renderlo nuovo: il rifacimento (su Prime Video) della “pulp fiction” cult anni ’80 starring Patrick Swayze segue questo mantra, e perciò funziona. Come il suo protagonista Jake Gyllenhaal, insieme muscolare ed eccentrico

Foto: Prime Video

Vi ricordate Road House, vero? Il film del 1989 in cui Patrick Swayze è un buttafuori professionista di New York importato nel Missouri per lavorare nel bar più scatenato dell’intero Stato? Il tipo di film in cui l’eroe pratica il tai chi, legge filosofia e recita koan zen come “il dolore non fa male”, e il cattivo pronuncia bon mots come “mi scopavo quelli come te in prigione”? Diretto da Rowdy Harrington, questo film rimane l’action perfetto da guardare alle tre di notte su qualche rete via cavo; presenta quella che è senza dubbio la miglior interpretazione di Swayze versione “under pressure” e vince il premio per le migliori acconciature anni ’80 in un film, nello stesso decennio che ci ha dato La ragazza di San Diego, Una donna in carriera e Labyrinth.

Rifare un classico di culto, per di più uno così associato al momento in cui è stato creato, è più difficile che domare una folla in delirio all’ora di chiusura. Non si può semplicemente riproporre gli stessi elementi: bisogna mantenere il vecchio, ma renderlo nuovo. È questa la linea che Road House, il rifacimento firmato Doug Liman dell’epitome del cinéma du brawl (da noi disponibile su Prime Video, ndt), deve percorrere. E lo fa, ubriacandoci di pugni. Ottima scusa sia per mettere in scena brutali scene di lotta sia per liberare dalla camicia un Jake Gyllenhaal più “strappato” del solito, questa rivisitazione moderna del guilty pleasure di un tempo è due volte più sciocca, tre volte più violenta, ed è anche un solido tributo sia al suo predecessore che all’arte della violenza su grande schermo. Sono cambiati solo il luogo, la storia e i nomi. Tutto il resto è la stessa vecchia corsa all’insegna del sangue.

Invece che in un elegante night club di New York, iniziamo da Anywhere, il circuito di fight club underground degli Stati Uniti dove Frankie (Jessica Williams) sta cercando di assumere un aiuto da fuori città. Le è stato segnalato che il picchiatore pesantemente tatuato (sì, quello è proprio Post Malone) che fa piazza pulita di tutti gli avversari potrebbe essere la persona che sta cercando. Ad attirare la sua attenzione, però, è l’uomo misterioso con la felpa con cappuccio appena salito sul ring improvvisato. Non appena si rivela, la campionessa getta la spugna. Non salirà sul ring con quell’uomo.

Perché quell’uomo è Elwood Dalton, ex peso massimo dell’UFC e attuale uomo senza fissa dimora. Non ha mai sgozzato nessuno, ma una volta ha ucciso un avversario durante un incontro e ora si guadagna da vivere lasciando che sia la sua reputazione a fare il lavoro pesante. Jake Gyllenhaal è il tipo di star che lavora a due velocità: protagonista con sguardo tormentato e mascella solida ed eccentrico meravigliosamente consapevole di sé (vedi: Okja, Velvet Buzzsaw, parti di Ambulance e questo capolavoro di sette minuti). Quando si è davvero fortunati, si ottiene una performance che combina entrambe le cose, e qui il mix è circa 75/25. Nel momento in cui si presenta stancamente e mostra dei pettorali che fanno pensare a un periodo di duro lavoro da Crunch Fitness, ci si ricorda perché è un attore che viene regolarmente chiamato per interpretare personaggi emotivamente feriti. Poi, quando viene accoltellato nel parcheggio e inizia a praticare un intervento chirurgico amatoriale su sé stesso, si ha un rapido assaggio di quello che chiamiamo “Weird Jake” (“lo strano Jake”, ndt). È un accenno a ciò che il protagonista di questo Road House 2.0 fa per tutto il film: un duro che ha visto e vissuto troppo.

Frankie gestisce una road house nelle Florida Keys. Una banda di motociclisti si presenta regolarmente e crea scompiglio. Gli affari vanno male e lei ha deciso che Dalton è l’uomo che può aiutarla a risolvere il problema. Lui accetta l’offerta. Arrivato nell’immaginario borgo marinaro di Glass Key, Dalton viene accolto da una giovane adolescente (Hannah Lanier) che gestisce la libreria locale. Uno straniero che è venuto a ripulire le cose e a cacciare i fuorilegge dalla città? “Sembra la trama di un western”, osserva la ragazza. Siamo già nel meta-genere. Di certo, il nuovo pistolero in città, con le armi truccate che gli spuntano dalle maniche, mostrerà alla banda perché ora le cose saranno diverse. E poiché Dalton si attiene alla regola d’oro – “Sii gentile” – li accompagna tutti all’ospedale dopo avergli rotto le ossa e aver provocato una commozione cerebrale al loro presuntuoso leader (JD Pardo).

Il primo scontro nel parcheggio della road house – che si chiama Road House: come altrimenti avrebbero dovuto battezzarla? – indica il tono che Liman e Gyllenhaal vogliono stabilire. Il personale del bar va da un barista svampito (B.K. Cannon) a un apprendista buttafuori (Lukas Gage). Sul palco, dietro una rete metallica, una band suona sempre una sorta di versione tropicale di un brano blues, zydeco, gospel e/o rock. Dalton emana la sicurezza di chi sa come fare il massimo danno, ma non si butta nella mischia fino a quando non è costretto, e anche in quel caso scorta la banda nel parcheggio. Un motociclista, interpretato da Arturo Castro, il mattatore del film, parla ininterrottamente. E poi, quando Dalton entra in azione, si assiste a un ipercinetico corpo a corpo di arti marziali miste che è una scarica di adrenalina. Improvvisamente ci si ricorda che Liman è stato l’uomo che ha creato la casuale ironia di Swingers (1996) e le sequenze di combattimento ravvicinato di The Bourne Identity (2002). L’umorismo è senza peli sulla lingua e i combattimenti sono micidiali, in un modo che fa pensare a uno stile del XXI secolo post John Wick fatto di schiocchi, crepitii e polvere.

Dopo l’incontro di Dalton con Ellie (Daniela Melchior), che riprende il ruolo di spalla romantica interpretato da Kelly Lynch nel film originale, Road House entra nel vivo. Il blu elettrico delle Keys offre uno sfondo nuovo e pittoresco a un sacco di pulp da film di serie B, ma il resto è in linea con il precedente. Ancora una volta, un ricco cazzone particolarmente odioso, interpretato da un Billy Magnusson in full effect, si nasconde dietro tutto quello che succede. Ancora una volta, un bruto modello maschio alfa (Conor McGregor) viene coinvolto per far fuori l’eroe. Ancora una volta, Dalton si fa in quattro per essere gentile, finché non arriva il momento di non esserlo più. Ancora una volta ci viene ricordato che nessuno vince in un combattimento, tranne lo spettatore, che può soddisfare la sua sete di sangue indulgendo nei brividi di seconda mano di un’epica rissa da bar a Margaritaville.

Conor McGregor e Jake Gyllenhaal in una scena del film. Foto: Prime Video

Stranamente, l’introduzione dell’inarrestabile terminator e dell’autentico generatore di caos cui dà il volto McGregor – che ottiene sia una scena introduttiva di prim’ordine che l’immancabile inquadratura a culo nudo – regala a questo remake il suo apice vertiginoso e segna l’inizio della fine. Se ritenete che il prolungato mix di esplosioni, doppi giochi, drammi con ostaggi, confusione e “Jake mano fredda” che perde la testa funzioni, è una vostra scelta, perché le opinioni variano. Il combattimento finale è davvero uno scontro tra titani, e aiuta il film a finire col botto tra un sorprendente coro di piagnistei; si ha l’impressione che, come tanti pugili senza una strategia chiara, questo omaggio a un capolavoro del trash si sia consumato con un duro colpo nei primi round. Ma è comunque un bel colpo.

Un’ultima cosa: Road House è stato presentato al SXSW Film Festival di quest’anno, e quello era davvero il posto perfetto per la prima di questo remake di un film cult anni ’80. I film horror, comici e d’azione tendono ad attirare folle estremamente entusiaste da queste parti, il che descrive Road House alla perfezione (per quanto riguarda la prima categoria, diciamo solo che c’è un coccodrillo nel primo atto che si farà notare anche più avanti, nel corso della narrazione). Sarà anche una delle poche volte in cui qualcuno potrà vedere questo film nel modo in cui è stato concepito per essere consumato, e ciò costituisce una delle numerose controversie che hanno accompagnato il film e che hanno particolarmente irritato il suo regista. Doug Liman ha denunciato MGM e Amazon per aver scelto di distribuire il film direttamente in streaming e ha detto che avrebbe boicottato la prima. Eppure era presente tra il pubblico del SXSW, anche se non sul palco a godersi gli applausi post proiezione. È bello pensare che abbia potuto sperimentare la reazione della platea di fronte a ciò che ha realizzato. Per quanto riguarda i distributori, vi supplichiamo: per favore, riconsiderate l’idea di concedere a questo film un’uscita nelle sale. Per parafrasare un saggio, non siate così stupidi da impedire agli spettatori di divertirsi.

Da Rolling Stone US

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