Roberta Torre è a Genova, «una Palermo senza Sud», che è forse una delle definizioni più belle e precise mai trovate per la città «coi suoi svincoli musicali» (altra definizione perfetta). «Debuttiamo il 20 giugno», attacca eccitata parlando di As You Like It, «quel testo di Shakespeare fantastico, una commedia divertentissima, leggera, che però non conoscevo bene, e invece ho scoperto che è uno dei più rappresentati, ci hanno fatto anche tanti film». Tra gli ultimi, un dimenticabilissimo Kenneth Branagh. «Più che altro era trasposto in Giappone senza nessun motivo». Qui invece, anche se la trovata può apparire furbetta, è filologicamente correttissimo. Protagoniste sono le Nina’s Drag Queens, «e la falsariga del testo è proprio quel “fate come vi pare”. Si racconta di una donna che si traveste da uomo per andare nella foresta di Arden, e lì si innamora di un uomo a cui fa credere di essere un uomo. È lo scambio dei ruoli, dei generi, a provocare il divertimento e l’ambiguità. E anche un discorso che si può collegare bene a temi molto attuali».
Shakespeare questa cosa del travestimento, delle maschere, dei generi fluidi, diciamo così, la metteva in versi più di quattrocento anni fa come fosse normale, permettimi l’aggettivo. Oggi dobbiamo parlare di modernità: dov’è che, nei secoli, ci siamo incasinati?
(Ride) Guarda, io sono figlia del ’900, ricordo tempi in cui questa situazione era completamente tranquilla. La mia giovinezza l’ho passata a Milano in una modalità totalmente libera rispetto a questi argomenti, poi improvvisamente, direi nell’ultimo decennio, c’è stata questa sorta di freno a mano tirato per cui tutto ha dovuto essere etichettato, e secondo me queste etichette hanno creato più confusione che altro. Io ricordo che al liceo eravamo tutti mescolati in ogni modo possibile, non avevamo tutte queste regole. Ma la regola di per sé sta a dirci che qualcosa non funziona, sono cose talmente ovvie, naturali, che il fatto di doverle regolamentare segnala che qualcosa è a rischio.
Nel mese del Pride 2023, possiamo forse dirci che stiamo vivendo uno dei momenti di maggiore regressione culturale e sociale sul tema che si ricordi?
Questa regolamentazione è uno specchio dei tempi, sì. Vuol dire, come osservi tu, che c’è stata una regressione enorme, che c’è un grande oscurantismo. Tornando a Shakespeare e agli illuminati di altri secoli, sia nel teatro che nella vita, mi sembra che avessero già tutto chiaro. Il mascheramento, lo scambio dei ruoli, la possibilità di amare al di là dell’appartenenza di genere… erano tutti temi già presenti, che andavano oltre il loro tempo.
Prima il bel docufilm su un gruppo di donne trans – Le favolose, che chi non ha visto trova su MUBI – ora Shakespeare con le Nina’s Drag Queens. Cosa ti ha acchiappata di questo mondo per molti ancora sommerso?
Le favolose era un progetto a cui pensavo da molti anni, nel 2015 ho iniziato a leggere i libri di Porpora Marcasciano (una delle donne ritratte nel film, nda), poi siamo diventate molto amiche. La cosa che mi ha colpito tanto di questa vicenda è la violenza esercitata negli ultimi attimi di vita di queste persone, il fatto che le famiglie si riapproprino del genere e, una volta morte, le rivestano con abiti che non sono quelli che hanno portato per tutta la loro vita. È proprio un furto dell’identità, un atto di violenza fortissimo, ed è una cosa che sento molto. Penso debba esistere una sorta di diritto alla memoria, ognuno di noi deve poter essere ricordato per quello che è stato, e quel furto finale significa che loro invece non saranno mai più ricordate per quello che sono state davvero. È un tema universale, un diritto umano al di là della questione di genere, ed è su quello che ho fatto il film, grazie al quale poi si sono stabiliti rapporti umani fortissimi, amicizie con tutte loro… L’incontro con le Nina’s invece è avvenuto grazie al Teatro Stabile di Genova e ad Andrea Porcheddu, che mi ha chiamata dopo aver pensato, insieme a Davide Livermore, di affidarmi questo spettacolo.
Da Tano da morire a oggi, se c’è di mezzo il queer chiamano te.
Eh, son sempre stata parecchio queer… (ride)
Ormai hai una specializzazione, li vedo mentre pensano: c’è un progetto a tema, chi chiamiamo? La Torre! Sei come i virologi in tv.
Sì, sono l’esperta, la trendsetter (ride). In Tano da morire, che citavi, c’era già quell’attrazione lì, quella sensibilità, e parliamo del ’97. Un’attrazione per tutto quello che esteticamente rappresenta il mondo queer e, nei casi più recenti, anche il mondo drag. E cioè il lavoro sulla maschera, quel preciso canone estetico, il poter cambiare il corpo, travestirlo, trasformarlo. Tutto questo però sempre legato all’aspetto gioioso della questione.
Anche Le favolose, nonostante il “furto” alla base di cui dicevi, è profondamente gioioso.
Sì, perché il tema queer l’ho sempre legato alla gioia, non ho voluto leggerlo solo sotto l’aspetto più drammatico, a volte anche tragico, che può inevitabilmente sollevare. “Tra il delirio e il dramma, abbiamo scelto lo spettacolo”, dicono le mie favolose. È una frase-manifesto.
Mi sembra valere anche per te.
Assolutamente. La messa in scena, la teatralità, il nascondere per rivelare, perché alla fine la maschera fa quello… questo è da sempre il mio mondo.
L’altro tema per cui possono ormai interpellarti come esperta è la libertà. “La libertà ha un caro prezzo”, si sente sempre dire nelle Favolose, e anche i tuoi personaggi – penso alla Angela di Donatella Finocchiaro – devono spesso pagare il prezzo di quella libertà. Ma alla fine, sembra sempre dirci il tuo cinema, la libertà vince, perché è più importante.
E per me lo è sempre di più andando avanti negli anni, quando ero più piccola non me rendevo tanto conto. Adesso invece è come se ci fosse una necessità estrema di vivere una vita in cui la libertà è il primo e l’unico desiderio da raggiungere. Le scelte di vita che fanno i miei personaggi mi rispecchiano tantissimo dal punto di vista, appunto, del desiderio, che è un altro elemento importante di cui però non si parla mai. In realtà è il motore di ogni cosa, se non c’è il desiderio non si va da nessuna parte. E l’affermazione del desiderio comporta la necessità di essere liberi, che non sempre è accettata. La libertà fa sempre paura, ancora adesso.
La libertà d’autrice che ti sei sempre presa, anche quella fa paura?
La libertà è fondamentale nella creatività, e io me la prendo in ogni caso, anche con tutte le difficoltà che ho avuto e che continuo ad avere, perché spesso non è facile realizzare quello che uno ha in testa. Ma se non fossi libera, questo mestiere non riuscirei a farlo.
Hai anche voluto mantenere una certa libertà dal mainstream, nonostante tu l’abbia toccato varie volte. Facevo anni fa un discorso su questo con Pedro Almodóvar: non possiamo certamente dire che il suo cinema non sia diventato mainstream, a suo modo, ma lui ancora oggi non si sente affatto tale.
Il mainstream l’ho sfiorato in vari momenti, ma le carriere non dipendono sempre dalla volontà. Io penso di avere un’anima profondamente pop, e questa cosa inevitabilmente è sempre venuta fuori, certe volte di più, altre di meno. Penso per esempio a un mio film che ho rivisto di recente perché è stato proiettato al Biografilm Festival, Riccardo va all’inferno. L’ho rivisto e ho pensato “ma è pazzesco!”, me ne sono quasi riappropriata. Eppure quando è uscito, nel 2017, è stato completamente ignorato, non ha avuto nessun tipo di pubblico. Rivedendolo oggi mi son detta che sembra fatto ieri, e che spesso tutto dipende dal momento storico in cui le cose succedono. Quindi il mainstream sta là e io sto qui, non ho mai voluto esserlo né ho mai voluto non esserlo, ho proseguito il mio cammino e a volte l’ho lambito, a volte no.
L’altra cosa da cui ti sei sempre tenuta lontana è il dibattito su registe donne, quota rosa…
Forse per via di quella mia natura queer di cui dicevamo… (ride) Io travalico un po’ i generi, non mi sento né donna né uomo, non voglio appartenere totalmente a una definizione. Quindi forse l’ho fatto per quello, non perché non creda che le autrici non devono essere spinte: io stessa spesso mi sono trovata e mi trovo ancora in condizioni di assoluta minoranza.
Che storie ti suggerisce l’Italia di oggi? Che Tano da morire gireresti nel 2023?
L’Italia ha sempre questa grande possibilità di giocare con le pedine in campo, è come se la stratificazione delle varie culture che ci sono state non riuscisse a perdersi, nonostante tutto. Per un artista questo è sempre molto affascinante, stimolante. Certo, a volte dal punto di vista dell’immaginario c’è una sorta di… non vorrei dire censura, ma di omologazione, ecco. Da spettatrice vedo questo, da autrice cerco invece di andare a pescare là dove ancora non si è fatto, vedi Le favolose: era il 2015 e nessuno pensava a quel tema, almeno non da noi, se stavo a Londra ero già fuori tempo massimo sul tema, l’avevano già affrontato mille volte. Ci sono ancora tanti mondi da esplorare in un luogo come l’Italia, forse proprio per via di questa nostra arretratezza.
Il prossimo film, Mi fanno male i capelli con Alba Rohrwacher, è ispirato a Monica Vitti. So che non puoi ancora dire molto, ma ecco, direi che chiudiamo come abbiamo cominciato.
Sì, perché Monica è stata mille donne in una, e mille possibilità di essere donna. E ancora le maschere, l’impossibilità di appartenere a un solo genere… sempre lì si torna.