È uno dei più grandi cinematographer del mondo, una vita passata a dare luci e colori (ma anche bianco e nero, come nell’Uomo che non c’era) ai film dei Coen Bros, ma anche di Denis Villeneuve e Sam Mendes, una collaborazione con quest’ultimo che viene da lontano, come ci ha raccontato lo stesso Roger Deakins nel corso della nostra chiacchierata su Empire of Light (nelle sale italiane dal 2 marzo), diretto proprio dal regista premio Oscar per American Beauty. Ambientato all’inizio degli anni Ottanta in una cittadina della costa meridionale dell’Inghilterra, uno di quei posti con il pontile con il luna park e l’idea che nelle poche belle giornate si può immaginare che c’è la Francia dall’altra parte del mare, Empire of Light è una lettera d’amore e riconciliazione di Mendes con la madre, affetta da schizofrenia e ritratta nel personaggio di Hilary, responsabile di sala dell’Empire, un bellissimo cinema sul lungomare di Margate. «Non è il mio Nuovo Cinema Paradiso», ci tiene a specificare Sam Mendes, che ha invece voluto raccontare un periodo particolarmente difficile della Storia inglese attraverso i ricordi e le esperienze della sua adolescenza. Cast sontuoso, con Olivia Colman magnifica, il giovane Micheal Ward magnifica sorpresa e Colin Firth e Toby Jones (quest’ultimo nel ruolo del proiezionista dell’Empire, figura quasi mitologica) comprimari di lusso. Su tutto, la meravigliosa fotografia di Roger Deakins, unica nomination all’Oscar conquistata dal film, la sedicesima per Sir Roger, con due statuette all’attivo (per Blade Runner 2049 di Villeneuve e 1917 di Mendes). Ma di premi non abbiamo parlato con questo pacato signore inglese con un passato sicuramente avventuroso. Perché mai, quando si può conversare di luci, colori e fuochi d’artificio?
Dopo 1917, Empire of Light è all’apparenza un film molto più semplice. Ma in realtà non è così.
È stata una sfida di dimensioni diverse. Credo sia sempre difficile lavorare in esterni, ma i vantaggi superano gli svantaggi. Poi bisogna confrontarsi con il mondo reale, gestire il tempo sul set, quanto a lungo si può girare in una vera location, insomma le solite cose da set.
In un’intervista hai detto: “Anche con l’esperienza, se non sei nervoso non stai facendo bene il tuo lavoro”. Ti ha reso particolarmente nervoso girare Empire of Light?
Non più di qualsiasi altro film. Se si cerca di fare del proprio meglio c’è sempre una certa dose di stress, e purtroppo la perfezione non è possibile, perché un film è sempre un compromesso, come ho appena detto. Potresti non avere abbastanza tempo o abbastanza soldi per le luci di cui hai bisogno. Potresti non riuscire a fare quello che vuoi perché le cose possono andare male, quindi non potrai mai raggiungere la perfezione, ma questo non ti impedisce di provarci. E per questo ti senti comunque sotto pressione.
Si è più creativi quando si è sotto pressione?
Credo che le due cose vadano di pari passo. Insomma, non so quale sia la gallina e quale l’uovo. Penso che sia la natura di chiunque cerchi di ottenere il meglio che può. Ma è una pressione personale per cercare di realizzare qualcosa che ti soddisfi interiormente. Sono sicuro che sia lo stesso per un giornalista: se tieni a quello che fai ed è così importante per la tua vita, allora sì, cerchi di essere creativo. Una volta ho lavorato con un grande regista, Bob Rafelson, che ho amato molto. Ho fatto un film con lui, intitolato Le montagne della luna. Una volta mi disse: “Attento a quando ti danno tutto, perché poi ti perdi. È quando hai dei limiti che puoi essere più creativo”. E credo che in un certo senso sia quello che stai dicendo tu. Credo che si debba trovare una via d’uscita, ma non credo sia la natura del lavoro. Ho fatto tutta una serie di film, da quelli che sono stati pensati in modo davvero meticoloso, come 1917 o Blade Runner 2049, a film come Jarhead, la prima volta che ho lavorato con Sam, che è stato totalmente istintivo. L’abbiamo girato interamente con la macchina a mano. Gli attori hanno iniziato a recitare una scena davanti a noi e io ho messo la macchina da presa sulla spalla senza neanche pensarci. Sono abituato ad adattarmi alle situazioni e credo che questa sia la sfida. E di certo si può essere molto creativi in questo modo.
Empire of Light ha degli elementi più personali, visto che hai dovuto fotografare luoghi simili a quelli dove sei cresciuto, la costa meridionale dell’Inghilterra? È stato difficile separare la nostalgia dalla storia?
La nostalgia non è sempre necessariamente buona. Gli anni in cui è ambientato Empire of Light non erano sempre felici, con le sommosse, la Thatcher e tutto il resto. Ma, in un certo senso, suppongo di avergli dato un tocco personale. Sono stato per molti anni nel campo dei documentari, e gli ultimi due film a cui ho lavorato con il mio amico Jon Saunders sono stati due film sulla salute mentale, per cui abbiamo trascorso alcuni mesi in un grande ospedale psichiatrico nel sud-ovest di Londra seguendo le vite di sei o sette pazienti. Il personaggio di Hilary è stato un po’ come rivisitare quel mondo. Ma non direi sia stato un film più personale di altri, solo diverso. Probabilmente era più legato a mie precedenti esperienze, ma questo non lo rende più personale, perché prendo tutto il mio lavoro in modo personale.
In questo film hai usato un’ampia gamma di lenti, mentre in 1917, sempre di Sam Mendes, ne hai dovuta usare solo una. È evidente che con ogni regista si crei una visione speciale e differente. Ti è mai capitato di trovarti nel pieno di un film e pensare “non sta funzionando” e di doverlo cambiare completamente?
Con Sam, quando abbiamo iniziato a girare Revolutionary Road, pensammo a una macchina da presa molto statica, perché il libro originale su cui si basa il film è quasi uno studio accademico della periferia americana, e abbiamo pensato di usare uno stile distaccato, come se la macchina da presa studiasse i personaggi. Ma presto Sam mi disse che non andava bene, non si sentiva abbastanza legato ai personaggi. Non è stato un grande cambiamento, avevamo iniziato a girare da un paio di giorni e avevo capito che dovevamo essere più coinvolti. Quella visione d’insieme non funzionava. Ma è l’unica volta che ricordo un cambiamento. E non era una gran cosa.
In Empire of Light ho visto molte cose che mi hanno ricordato Edward Hopper. E poi gli elementi naturali: la polvere, l’aria particolarmente rarefatta. Come si crea un’atmosfera del genere?
Non lo so. Voglio dire, varia da un particolare all’altro, in realtà. Si usa una tecnica per creare la polvere nel fascio di luce di un proiettore, un’altra per ricreare l’atmosfera di una notte su un tetto con i fuochi d’artificio che esplodono. Pensi al modo in cui tu vorresti venisse fuori, al modo in cui si vuole che venga fuori, e poi si lavora sulle idee giuste per creare quello che vedi sullo schermo. Non so cos’altro dire, davvero. Non ho riferimenti artistici di solito. Penso che ognuno sia il prodotto di ciò che ha assorbito nella vita. Adoro le fotografie di Harry Gruyaert, mi hanno influenzato tanto, e in effetti ci sono un paio di immagini nel film che ricordano il suo lavoro. Ce n’è una in un caffè, un’immagine riflessa in una finestra, con una luce gialla e arancione e con tavoli rossi. L’ho mostrata a Sam durante la pre-produzione, perché aveva parlato di fare il film in bianco e nero e non mi sembrava giusto, pensavo ci saremmo allontanati dal soggetto e dai personaggi. Così ho preso alcune immagini di Gruyaert come riferimento, come spunto per parlare, ma non come riferimento diretto a ciò che faccio. Credo che, come ho detto, il modo in cui reagisci a qualcosa sia una combinazione di tutte le cose che hai visto e provato in precedenza. E io sono una persona molto istintiva quando lavoro. È la reazione alla visione di uno spazio o a ciò che gli attori fanno al suo interno.
Hai lavorato ad alcuni dei film più iconici degli ultimi quarant’anni e lavori con i più grandi cineasti contemporanei. Cosa ti deve entusiasmare per abbracciare un progetto? La personalità del regista o la sceneggiatura?
In genere la sceneggiatura. Sai, se hai un rapporto con qualcuno come Joel e Ethan Coen da molti anni, allora sì. Sai, passi così tanto tempo con un regista che devi sentirti in un ambiente confortevole. E loro lo sono. Quindi è molto importante la sceneggiatura, ma anche la sensazione di essere in una situazione che mi dà soddisfazione. Altrimenti perché farlo? Lo stile di vita è bello, non dico che non veniamo pagati molto bene e tutto il resto, ma di certo non lo faccio per questo. Lo faccio perché è la mia vita e voglio godermela come piace a me.
Fare cinema è sempre un lavoro in collaborazione, quindi anche la tua visione potrebbe essere combinata a quella dei registi con cui lavori. Ma se volessimo dare una cifra al tuo stile, dove e come lo dovrei riconoscere?
Non sono la persona giusta per rispondere. Forse qualcun altro potrebbe. Voglio dire, sia che stia facendo qualcosa di molto stilizzato come Blade Runner o di molto naturalistico come 1917, voglio creare un mondo reale: deve sembrare reale, se non proprio naturale. Ma è interessante quello che dici. È una collaborazione. Quindi, ancora una volta, il rapporto che si ha con un regista è davvero importante, così come lo è con uno scenografo e con tutti gli altri, perché vuoi sentirti parte di tutto questo, non solo uno che accenda la luce e azione la cinpresa. Ma ho avuto conversazioni molto interessanti con Harry Gruyaert e con Alex Webb, altro fotografo che ammiro molto, su questo argomento. Entrambi hanno iniziato facendo cinema, ma non riuscivano a sopportare il fatto che non fossero solo loro a decidere dove dovesse stare la macchina. Preferivano di gran lunga essere dei solitari e scattare fotografie. Be’, io ho sempre scattato fotografie nella mia vita. Anzi, ho appena pubblicato un libro. E sono molto combattuto, perché in realtà amo l’idea e la pratica di andare in giro con la macchina fotografica e scattare le fotografie che voglio quando voglio. Quindi mi piace l’aspetto solitario della fotografia, ma mi piace anche essere su un set con un gruppo di persone che lavorano per lo stesso scopo. Penso sia davvero speciale quando funziona.
Hai parlato del tuo libro e vorrei chiederti quando hai scelto le fotografie che lo compongono. Byways sembra un rappresentazione in immagini dell’opera di Robert Frost. Qual è stato il processo alla base delle tue scelte?
Casuale. Alcuni scatti risalgono al 1971, quando ho lavorato per un breve periodo come fotografo per l’Art Center, altre sono fotografie che ho scattato durante un documentario o un film, la maggior parte sono fatte nel tempo libero, aggirandomi in luoghi senza un vero e proprio scopo. Sono cose che attirano la luce, è come se fosse il mio album di schizzi. Ecco perché si chiama Byways. Era qualcosa che ho sempre voluto fare, perché scattare una fotografia se non per farla vedere a qualcuno? E mi piacciono i libri rispetto a internet, mi piace vedere le cose su una pagina. Così, durante il lockdown, mi sono concentrati sull’idea di pubblicare questo libro.