Prima o poi, ma sarebbe più opportuno in fretta, sarà necessario dare a Richie quel che è di Richie. Ron Howard è uno dei grandi di Hollywood, e non solo perché ha vinto due Oscar ed è stato candidato altre due volte, ed è comunque poco per quello che ha prodotto nella sua carriera. Il regista ed ex attore, che torna nei cinema italiani dal 10 aprile con la sua ultima fatica, Eden, presentata in anteprima all’ultimo Torino Film Festival a novembre (distribuisce 01 Distribution), è infatti un profilo raro nel panorama cinematografico statunitense da quasi cinquant’anni.
Classe 1954, a cinque anni era già davanti a una macchina da presa: non poteva essere diversamente, essendo figlio di un regista e di un’attrice. Da attore bambino ha lavorato in un’industria che era già in trasformazione, gli Studios erano ancora potenti ma la televisione stava prendendo piede, non a caso il giovane Howard viene sballottato da un set all’altro. Si fa otto anni di The Andy Griffith Show sul piccolo schermo e nel frattempo recita nella versione cinematografica di The Music Man (era lo spettacolo di Broadway che C.C. Baxter e Miss Kubelik non vedranno mai insieme nell’Appartamento di Billy Wilder) e Una fidanzata per papà, diretto dall’immenso Vincente Minnelli e quasi tenendo testa a Glenn Ford.
Il piccolo Ron guarda, ascolta, impara, si forma, in attesa di incontrare degli altri mentori che portano ancora oggi il nome di Francis Ford Coppola e George Lucas, da una parte, e il compianto Garry Marshall, creatore di Happy Days, dall’altra. La Nuova Hollywood, di cui è diventato fratello minore, e l’intrattenimento popolare: sono queste le anime di Howard, a cui si aggiunge una sensibilità nei confronti dell’animo umano declinata in ogni genere (praticamente tutti) da lui affrontato.
Tutte cose che si ritrovano in Eden, tratto dalla storia vera di quello che da quasi un secolo viene chiamato “il mistero di Floreana”, un fatto di cronaca che Howard trasforma in indagine antropologica, raccontando oggi, in un mondo sull’orlo del baratro come non accadeva da sessant’anni, quanto gli uomini siano meschini e fin dove siano disposti a spingersi per assecondare il naturale istinto alla sopravvivenza.

Jude Law è il Dr. Friedrich Ritter. Foto: 01 Distribution
L’isola di Floreana si trova nell’arcipelago delle Galapagos, che non è il saluto sardo del Nico di Aldo, Giovanni e Giacomo, ma un paradiso terrestre, per fortuna ancora oggi parzialmente incontaminato, sito nell’Oceano Pacifico a largo dell’Ecuador. Qui si trasferì nel 1929 il biologo tedesco Friedrich Ritter con la sua compagna Dora Strauch, coppia di intellettuali fricchettoni che volevano fuggire da un mondo a loro parere destinato alla catastrofe, vivendo in totale solitudine. Che durò poco, anche perché se vuoi stare in pace non mandi lettere ai giornali di mezzo mondo per dire quanto si sta bene per i fatti propri (se consultate l’archivio di The Atlantic, la rivista a cui il governo americano manda i piani della fine del mondo su Telegram, trovate le sue missive dell’epoca). Nel 1932 la popolazione di Floreana passò quindi da due a cinque abitanti. Friedrich e Dora furono raggiunti da Heinz e Margret Wittmer, accompagnati dal figlio adolescente. Tedeschi anche loro, avevano venduto tutto quello che avevano ed erano fuggiti da una Germania sull’orlo del collasso, alla vigilia della presa del potere da parte di Hitler.
Passa un anno e arrivano altri inquilini nel condominio, la Baronessa Eloise Wehrborn de Wagner-Bosquet con i suoi due amanti e il suo tuttofare. E quello che succede poi ve lo racconta Ron Howard in Eden, basandosi sulle testimonianze dei diretti interessati che hanno raccontato i fatti. Nei panni della coppia di primi coloni Jude Law e Vanessa Kirby, la felice famigliola è composta da papà Daniel Brühl e mamma Sydney Sweeney, quest’ultima piuttosto sorprendente nel ruolo di moglie dimessa e sottomessa, mentre la nobile ultima arrivata è Ana de Armas, anche lei efficacissima.

Ana de Armas alias Eloise Bosquet de Wagner Wehrhorn. Foto: 01 Distribution
Un po’ biopic, un po’ thriller, Eden offre a Howard l’occasione per continuare il suo personale percorso di esplorazione della condizione umana, che è quello che ha fatto per la maggior parte della sua carriera dietro la macchina da presa. I protagonisti dei suoi film sono quasi sempre personaggi prigionieri di una condizione in cerca di una via di fuga. Tom Hanks in Splash – Una sirena a Manhattan è un uomo rimasto bloccato in un sogno infantile, Elliot “A Beautiful Mind” Nash (Russell Crowe) vive nella meravigliosa terra di numeri e ha un amico immaginario perché non riesce a dare un senso logico al mondo che lo circonda. Gli astronauti dell’Apollo 13 anelano la Luna, ma restano in trappola in un limbo. La coppia di Cuori ribelli Tom Cruise-Nicole Kidman è in cerca della sua Terra Promessa.
C’è una coerenza rara nel cinema di Ron Howard, un discorso che lui affronta con gli strumenti classici del mondo in cui è cresciuto, i generi. La fantascienza di Cocoon – L’energia dell’universo, la commedia in tutte le sue declinazioni (Parenti, amici e tanti guai è un film enorme, che meriterebbe una grande rivalutazione critica), il western, quello crepuscolare di The Missing, uno dei suoi film più belli e meno fortunati, ma anche quello galattico di Solo, la sua incursione da salvatore della baracca di uno dei film più travagliati dell’universo di Star Wars.
Howard è un autore, pur non firmando mai le sue sceneggiature, come fa d’altronde anche Steven Spielberg, ma anche un pragmatico conoscitore dell’industria in cui è cresciuto. Sa come fare un film di successo, la trilogia di Robert Langdon (sullo schermo sempre Hanks) inaugurata dal Codice Da Vinci ne è la prova lampante, materiale originale di bassa lega come i tre romanzi di Dan Brown che Howard trasforma in puro intrattenimento che frutta un miliardo e mezzo di dollari di incassi. Ragion per cui il caro vecchio Richie Cunningham può fare più o meno quello che vuole. Eden e il precedente Tredici vite, instant movie sul salvataggio dei bambini rimasti intrappolati nella grotta di Tham Luang in Thailandia, sono film nati da pulsioni umanissime, la commozione di un ritorno alla vita il secondo, l’indagine degli abissi dell’anima il primo.
Un percorso in cui si inseriscono perfettamente sia film insospettabili e spettacolari come Fuoco assassino, Rush e Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick, tutti racconti d’ossessione, che opere dichiaratamente politiche come Frost/Nixon e il vituperato, ma oggi da analizzare con attenzione, Elegia americana, tratto dall’autobiografia dell’oggi vicepresidente J.D. Vance, sguardo ferocemente compassionevole sulla cultura White Trash, quella che è davvero la spina dorsale degli Stati Uniti, come ampiamente dimostrato.
Eden è un film fatto con grande mestiere, si sente costantemente il disagio materico della vita in condizioni avverse, eruttano emozioni primordiali nei confronti dei personaggi che lo popolano. Non è cosa che riesce a molti, soprattutto in un panorama cinematografico e televisivo dove troppi prodotti vengono facilmente elevati a capolavoro. C’è anche una grande obiettività nel fare cinema secondo Ron Howard, consapevole di avere realizzato film per la massa, ma sempre con grande sincerità intellettuale. Hai detto niente.