L’esasperazione non è un’emozione che di solito ci si aspetta di provare in un film per famiglie. Ma cos’altro poteva cercare John Krasinski quando ha ingaggiato Ryan Reynolds per interpretare un clown triste nella sua nuova sdolcinatissima fiaba live-action, IF – Gli amici immaginari (ora nelle sale)? Reynolds interpreta Cal, uno spiantato di New York che si è assunto la responsabilità di badare a una banda di amici immaginari, ovvero creature fantasiose dei cartoni animati dimenticate dai bambini che le hanno sognate. Con il suo bel viso incorniciato da una barba da post-sbornia i suoi famosi addominali nascosti sotto una maglietta bianca e un paio di bretelle, l’attore passa tutto il tempo di film con la solita aria da scazzato che si fa voler bene. Senza vere battute da recitare, il suo sarcasmo diventato ormai un marchio di fabbrica appassisce come un fiore morente.
È possibile immaginare qualcun altro in questo particolare ruolo, magari un attore con un’anima più tenera o almeno più adatta ai bambini. Ma questo richiederebbe anche di immaginare un mondo in cui Ryan Reynolds non fosse effettivamente in… tutto. IF potrebbe essere la prova più evidente del fatto che abbiamo raggiunto il punto di massima saturazione nei confronti del simpatico divo canadese con il fisico da modello e l’espressione da macchina da gag. A quanto pare, Hollywood ha puntato tutto su di lui e sta ragionando sul fatto che il suo star power – una combinazione chimicamente infallibile tra l’affascinante prim’attore, il comico e il lifestyle guru – si rivelerà irresistibile a prescindere dal contesto.
In un mondo della cultura pop sempre più caotico, Reynolds è praticamente onnipresente, una monocultura individuale. Si può a malapena guardare uno schermo senza scorgere il suo sorriso perlaceo da sciacallo. Per quanto riguarda i progetti, il ragazzo non fa discriminazioni demografiche: quest’estate, dopo il calore e l’allegria di IF, tornerà con l’ennesimo sequel dell’irriverente Deadpool, vietato ai minori. Mentre il più anziano pinup-boy Tom Cruise si dedica religiosamente all’esperienza del cinema, Reynolds si limita a giocare d’azzardo, alternando i blockbuster da grande schermo a film in streaming usa e getta come Spirited – Magia di Natale e Red Notice. Non si esime nemmeno dal prestare la sua fama per una rapida apparizione in un cameo, si vedano Ghosted e Bullet Train – se l’algoritmo non ve li ha già serviti.
Come la sua amica Taylor Swift, Reynolds ha probabilmente superato la semplice celebrità per raggiungere lo status di marchio del XXI secolo. Le star del cinema hanno sempre capitalizzato sulla loro visibilità e fama, costruendo con cura un’immagine di sé che può essere comprata, venduta e significativamente sovvertita dal regista giusto. Ma Reynolds ha reso più esplicito l’aspetto imprenditoriale della star cinematografica, inserendo la sua intera carriera di attore in un più ampio portafoglio di iniziative commerciali. Non ha solo investito in alcolici di lusso, reti telefoniche wireless e aziende pubblicitarie. Ha anche fatto di sé stesso il volto pubblico di queste aziende, elegante e autoironico. In questo senso, è davvero una star del cinema per l’era degli influencer, un instancabile re dei contenuti.
Un tempo sarebbe stato difficile immaginare Reynolds al comando di Hollywood. La sua spregiudicatezza Gen X, affinata nella sitcom Due ragazzi e una ragazza e poi perfezionata in commedie da grande Studio, lo ha portato alla fama, ma ha anche messo una certa distanza tra lui e il potenziale pubblico. Sembrava sempre sorvegliare ogni momento da una distanza sardonica che poteva risultare fin troppo compiaciuta. E le sue performance comiche più sfrenato sembravano rispondere a una domanda che nessuno si poneva: cosa succederebbe se Jim Carrey fosse un figo da squadra di football?
Ma alla fine la cultura si è piegata nella direzione di Reynolds. O forse ha semplicemente individuato una via di mezzo più sapiente tra ironia e autenticità. È stato Deadpool, un passion project a tema supereroistico che ha inseguito per anni, a rivelare finalmente il suo talento per l’auto-parodia. Rivolgere lo sberleffo a sé stesso – e allo stesso film di cui era protagonista – sembrava inaugurare per Ryan Reynolds la stagione di un fascino che potremmo dire postmoderno. Era una star del cinema che non aveva paura di prendersi gioco di sé stesso o dei suoi fallimenti. E forse l’aver ricoperto il suo famoso volto di tessuto prostetico per simulare un’ustione lo ha reso più “immedesimabile”, più simpatico.
Poche star del cinema sono sembrate più in contatto con lo spirito dei social media. Reynolds, soprattutto in veste di Deadpool, sembra spesso incarnare la voce degli angoli meno ostili di Reddit. È una specie di dio del memelord capace di dare un volto benevolo a un’intera cultura di battute da bacheca social. Si potrebbe persino definire il meta-umorismo dei film di Deadpool una forma codificata di linguaggio internet: sfondando la quarta parete, si “esibisce”nella recensione del suo film su TikTok. Possono i tuoi fallimenti rimanere impressi quando sei il primo a farne la parodia?
C’è una certa varietà sotto la sfacciata spettacolarità che è arrivata a definire l’immagine pubblica di Ryan Reynolds. Il cinismo è la leva con cui gioca di più nei suoi blockbuster: se Wade Wilson/Deadpool porta la sua autoconsapevolezza all’estremo, l’ingenuità di Free Guy si colloca all’altro estremo. Al di fuori dei contenuti hollywoodiani, si è spinto oltre, interpretando un soldato terrorizzato in Buried – Sepolto, un padre alla ricerca ossessiva della figlia in The Captive – Scomparsa e un assassino allegramente folle in The Voices. Il sottovalutato Certamente, forse gli ha fatto mostrare un romanticismo fragile che raramente mette in scena. E la sua migliore interpretazione rimane quella di un astuto giocatore d’azzardo in Mississippi Grind, in cui piega il suo carisma a un naturalismo in stile New Hollywood anni ’70.
Al giorno d’oggi, però, Reynolds non corre molti rischi con il suo successo. Dopo Deadpool, si è dedicato soprattutto al “marchio Ryan Reynolds”: una routine da quipster a prova di bomba che può essere inserita con minime variazioni in qualsiasi produzione di major o di Netflix. C’è qualcosa di effimero in una performance di Reynolds del 2024. Di solito ha un piede piantato nel materiale che deve recitare e uno fuori: una strategia astuta per rimanere al di sopra della mischia e scrollarsi di dosso i fallimenti. In un certo senso, la sua recitazione è diventata accuratamente “mediata” come un profilo sui social media. Non si vede mai veramente Ryan Reynolds, ma solo il miraggio della star da sogno che sta vendendo al suo pubblico. Anche se indossa la tuta di Deadpool, ci mette sempre sopra la sua facciata attraente.
Reynolds può essere sempre ovunque, è l’immagine dell’ubiquità culturale, perché il suo personaggio di star è inoffensivo e adattabile a qualsiasi contesto: è l’esempio di una mascolinità elegante e divertente che difficilmente potrà essere filtrata da qualsiasi algoritmo. Il suo fascino è trasversale a qualsiasi genere. È appetibile. È il prodotto, indipendentemente da chi interpreta – e chi interpreta di solito è qualcuno di sovrumano o post-umano o irreale, come un agente segreto o un maestro del crimine o un viaggiatore nel tempo o un’IA o un Pokémon. È sempre e solo Reynolds la star, che potrebbe essere la chiave del suo successo in un mondo in cui i veri soldi si trovano nel culto della personalità.
Ma ci sono dei limiti a questo approccio unico alla celebrità. Non è adatto a tutti i ruoli. È fuori posto in IF, almeno dal punto di vista creativo (dal punto di vista commerciale, invece, la sua semplice presenza come star in un’epoca in cui non ce ne sono troppe probabilmente farà il suo lavoro). Il film ha bisogno di un centro emotivo più solido, di un’ancora di concretezza tra le creature in CGI. Ha bisogno di un po’ di umanità. Quello che ottiene invece è un Ryan Reynolds burlone ma senza battute. In IF, è il fascino di Reynolds che finisce per sembrare immaginario.