Se all’epoca ci fosse stato Instagram, forse Balzac avrebbe scritto lo stesso romanzo. O magari no. O forse il personaggio di Lucien de Rubempré, nato Chardon, Instagram l’ha anticipato, profetizzato, addirittura inventato. Perché incarna esattamente quello che siamo noi oggi. Nell’era, la nostra, dell’(auto)rappresentazione sociale e social, della continua ridefinizione dell’identità perché l’identità cambia ogni cinque minuti, delle stories fatte vedere solo agli “amici più stretti” che comunque restano perlopiù sconosciuti pure loro; ecco, in quest’era qua Illusioni perdute è una specie di feed vivant, bacheca pubblica, diretta coi cuoricini che scorrono.
Lucien nasce borghese piccolo piccolo di campagna ma ambisce al titolo nobiliare (la spunta blu), alla giusta cerchia parigina (i diecimila follower per lo swipe-up), l’estetica adeguata (i vari #supplied, #gifted, eccetera). «È come ti vesti che ti fa sembrare ricco anche se non lo sei», gli dice (più o meno) la fidanzatina Coralie wannabe attrice (oggi probabilmente influencer), e difatti così avviene, almeno per un po’.
Lucien, per chi come me ha letto il romanzo negli anni in cui davvero si pensava a cosa saremmo diventati o voluti diventare (ma, grazie a dio, senza i social), vuole fare il poeta, ma capisce che a fare lo scribacchino per giornaletti da poco ci si inserisce meglio nel salotto che (per lui) conta. (Tradotto oggi: vuoi mettere due infografiche su Instagram quanto mi fanno crescere più in fretta la community?)
L’Illusioni perdute di ieri diventa un film sorprendente, già in concorso a Venezia 78 e al cinema dal 30 dicembre, firmato Xavier Giannoli, uno che guarda al cosiddetto “cinema di papà” pre-Vague, ma che sa mantenere un passo ultracontemporaneo. Non credo abbia pensato a Instagram, quando ha deciso di adattare il capolavoro di Balzac; e la mia analisi (parola grossa) di poco fa è comunque assai riduttiva. Ma certamente c’è la chiara comprensione del fatto che quel romanzo di quasi duecento anni fa è specchio precisissimo del presente. Ci sono le fake news e la pubblicità che decide sempre tutto; e l’ansia di compiacere tutti seguendo il flusso, il trend, gli hashtag.
Poi c’è il film in senso stretto: un romanzone dell’800 da noi diventerebbe una fiction Rai, magari anche ottima. Qua è invece un film per spettatori colti ma non solo, alto e popolare, e ricchissimo, elegantissimo, con gran décor mai polveroso, splendido ritmo nonostante la durata (144’), e soprattutto un cast magnifico: Cécile de France, Vincent Lacoste, Xavier Dolan usato splendidamente come secondo attore, l’adorata Salomé Dewaels alias l’attricetta sopradetta, Gérard Depardieu che passa e non strafà.
E Benjamin Voisin, già nel bellissimo Estate ’85 di Ozon, è un Lucien perfetto, sa essere bello e goffo insieme, è un volto credibile del tempo della Restaurazione ma starebbe benissimo anche nella Parigi di oggi. Come quando – non è spoiler: è Balzac – gli tocca il destino che spetterà presto a tutti noi giornalisti: un giorno le testate chiuderanno tutte, e ci ritroveremo a fare i copy. O i social media manager. Scusa, Honoré.