«Bisogna deliberare: quali di questi tardivi aspiranti allo status di vittima possono essere accolti? Quali no?». E subito dopo: «La giurisprudenza distingue fra vittima “vera” e “vittima indiretta” o “spettatore involontario”». Solo che poi – continua a spiegare Carrère in V13, ultimo saggetto (sempre Adelphi) dove racconta il processo ai terroristi del Bataclan – a volte qualcuno fa confusione nella classificazione, e da “spettatore involontario” punta a diventare “vittima vera”. E quindi ecco rubricata in quelle pagine la storia di Flo la mitomane, come l’ha rinominata la stampa francese, che diceva di avere un amico in ospedale sopravvissuto all’attentato, ma soprattutto aveva chiesto un fracco di soldi per il trauma subìto di rimando. Non era vero niente.
Questo per introdurre la storia di una vittima vera, cioè Asja, che nella realtà è però Elma Tataragić, consueta collaboratrice della regista macedone Teona Strugar Mitevska. Il film precedente, girato molto per i festival e arrivato anche da noi, era Dio è donna e si chiama Petrunya, ora esce L’appuntamento (dal 6 aprile, distribuisce Teodora). Che, appunto, è la storia di Elma; nel film diventa Asja, bosniaca sopravvissuta alla guerra jugoslava che, durante uno speed-date in uno di quegli alberghi brutalisti di Sarajevo, incontra il cecchino che le aveva sparato.
Manco Teodosio Losito, direte voi. E invece a Elma Tataragić è successo per davvero, con la differenza che era avvenuto durante un seminario teatrale. Ricostruendo date, luoghi e dettagli (una coperta con un orsacchiotto stesa), lei e l’uomo scoprirono che erano, appunto, vittima e carnefice.
E qui sta il fuoco di questo bel film che risolve tutto come non t’aspetti. Che cosa succede ad Asja (Jelena Kordić Kuret, bravissima) quando incontra Zoran (Adnan Omerović, idem)? Sindrome di Stoccolma? No di certo. Perdono incondizionato? Nemmeno. Qualcosa però cambia? Tutto, naturalmente. Ma con le sfumature della vita, anche quando la vita è dura; anche quando si è vittime ma non si vuole esserlo, o quantomeno si cerca di non esserlo più, agli occhi propri e degli altri; anche quando si merita una vendetta, ma non la si cerca; più di tutto, anche quando capisci che il carnefice è stato, in qualche modo, una pedina inconsapevole della Storia, come te.
L’appuntamento, titolo italiano per una volta più pertinente di quello internazionale The Happiest Man in the World (questo è un appuntamento forse d’amore, certamente col destino), è molto ben orchestrato: una quarantina di persone quasi sempre nella stessa stanza di cui emergono via via vite, dettagli, ragioni. È un balletto in equilibrio sul filo esile e parzialissimo della memoria: trent’anni che per alcuni sono una ferita apertissima, per altri (soprattutto i più giovani) un tempo dimenticato, sepolto.
L’altra sera ho fatto una chiacchierata con Teona Strugar Mitevska davanti al pubblico di un cinema milanese, prima avevamo bevuto un paio di bicchieri di nebbiolo. A un certo punto ha detto: «Titane, il film che ha vinto la Palma d’oro due anni fa, è pieno di difetti, però l’ho amato, perché la regista (Julia Ducournau, nda) si è presa tutta la libertà di fare quello che voleva, fregandosene di tutto». Titane non è il mio cinema, ma comprendo il punto. Anche Teona, nell’Appuntamento, dimostra questa libertà. Di trattare una materia esplosiva come crede, e svoltarla in modi inaspettati. Di raccontare una storia dove tutti sono vittime e nessuno vuole esserlo. In quest’epoca in cui tutti siamo Flo la mitomane, mi pare già un risultato enorme.