Di quei (nemmeno) 40 minuti della Meravigliosa storia di Henry Sugar non ne avevamo avuto abbastanza, del genio fatto corto di Wes Anderson ne volevamo ancora. E ancora. Be’, ci ha accontentato: non uno, ma tre nuovi corti ancora più corti (siamo sui 17 minuti l’uno, tutti su Netflix). Che sono bellissimi, inaspettati, anche disturbanti pur nella loro confezione meravigliosamente wesandersoniana.
La parole di Roald Dahl la fanno ancora da padronissime (e resta questa la grande intuizione del regista: l’omaggio totale allo scrittore), escono dalla bocca degli attori a macchinetta: Rupert Friend, Ralph Fiennes, Dev Patel, Ben Kingsley, Richard Ayoade e – sì, ancora una volta – Benedict Cumberbatch quasi fanno fatica a respirare (letteralmente). E anche noi, in un’apnea che ci fa battere il cuore allo stesso ritmo del ragazzino bullizzato di The Swan (in italiano Il cigno), fotografato con un affetto palpabile dal BFF di Wes, Roman Coppola, lungo due file strettissime di balle di fieno, scenografia-capolavoro del “solito” Adam Stockhausen.
Rupert Friend interpreta la versione adulta del bambino che ha subìto le angherie di due teppistelli più grandi (e presta la voce anche a loro). Ma, di fianco a lui, c’è pure il bambino che è stato. L’occhio fisso e celeste di Friend aggiunge a questo ritratto della perdita dell’innocenza (il cigno del titolo, che ovviamente non farà una bella fine… e non solo lui) una gravitas solenne, al punto che quello sguardo, dritto in camera, fai fatica a sostenerlo. Perché, di quel momento di violenza, siamo tutti complici, in qualche modo. È il ritorno di un uomo fatto al suo trauma dell’infanzia davanti ai nostri, di occhi, che Anderson cattura con un minimalismo, una sensibilità e una levità che l’hanno consacrato ad Autore. Il titolo più straziante del terzetto.
Il corto più weird e “pulp” (per quanto Wes possa essere pulp) è invece The Rat Catcher (Il derattizzatore), starring Richard Ayoade e un Ralph Fiennes cacciatore di topi che sembra ormai anche lui, anatomicamente, assomigliare sempre di più a un ratto, un po’ stile Codaliscia (wink wink ai potteriani), con tanto di finale morbosetto. Brividino lungo la schiena per viscidume perfettamente rappresentato. Ecco, se questi corti hanno un fil rouge, rispetto alla grande quantità di short stories scritte da Dahl, è proprio l’intreccio tra l’essere umano e l’animale, che sia per manifesta somiglianza nella descrizione dello scrittore (Fiennes/topo) o perché l’uomo e la creatura sono in qualche modo profondamente legati (il povero Friend/cigno).
C’è poi una terza storia, in cui l’animale scatena una reazione bestiale nel personaggio, e cioè Poison (Veleno). Cumberbatch è immobile a letto e cerca di non respirare o parlare perché pensa di avere un serpente – il cui morso gli sarebbe letale – accovacciato sullo stomaco. L’amico Dev Patel fa tutto il possibile per salvarlo, insieme a un dottore indù (Ben Kingsley). Una volta risolta la situazione, la paranoia del paziente diventa improvvisamente (e quando dico improvvisamente intendo in un millesimo di secondo) rabbia cieca contro il povero, disponibilissimo medico. E sbam, è un pugno nello stomaco. Di più: è quello che tristemente vediamo molto più di quello che dovremmo in questo mondo perennemente incazzato. Wes, che è king della gentilezza e dell’affabilità, lo sa. E ce lo sbatte in faccia.
Chiamatela letteratura, chiamatelo teatro, chiamatelo cinema: i corti di Wes sono tutte e tre le cose. Onorano l’esperienza della lettura, c’è il limite creativo del palco e delle scenografie ma anche la libertà di spaziare a tutto quello che una macchina da presa può inquadrare. Eppure queste chicche restano un affare estremamente intimo e personale, tra Anderson e noi, personaggi silenziosi, testimoni di queste storie. Con la benedizione di Dahl. E del potere dell’immaginazione.