Una vecchia copertina di TIME Magazine definì Liv Ullmann “la nuova star nordica di Hollywood”, dicitura che in realtà non si è mai adattata davvero all’attrice norvegese. È stata un’interprete impegnatissima, protagonista di alcuni dei più grandi film di Ingmar Bergman degli anni ’60 e ’70. È stata anche una bravissima regista, con una filmografia che comprende il gioiello del 2000 basato su una sceneggiatura dello stesso Bergman e intitolato L’infedele. È diventata una fervente attivista umanitaria, sempre in viaggio nei Paesi più disperati del mondo come ambasciatrice dell’UNHCR. Ma una star? «Non sono mai diventata una star», confessa in quest’intervista per Rolling Stone US per l’uscita negli Stati Uniti della docuserie Liv Ullmann – A Road Less Travelled. E le va benissimo così.
Ullmann, a 84 anni, è una degli ultimi “link” viventi con il cinema di Bergman, il maestro svedese che ha fatto del tormento spirituale e del caos emotivo pura poesia. Se Harriet Andersson (Monica e il desiderio) era fuoco vibrante e Bibi Andersson (Il settimo sigillo) una boccata d’acqua fresca da una fonte di montagna, Ullmann, che ha lavorato con entrambe le colleghe, è terra, roccia, ma sempre pronta ad essere sconquassata da un terremoto. Tra il 1966 e il 1969, è stata protagonista di quattro film – Persona, L’ora del lupo, La vergogna e Passione, gli ultimi tre in coppia con Max von Sydow – in cui ha messo in scena alcuni dei demoni più oscuri di Bergman. In Persona, la sua prima collaborazione con il regista, quasi non parla, il che sembra del tutto appropriato per un’attrice dall’espressività e dalla vulnerabilità fuori dal comune. Come dice Jessica Chastain, diretta da Ullmann in Miss Julie nel 2014, «è come se non avesse la pelle». (Nel 2021, invece, Chastain ha interpretato uno dei ruoli che hanno reso celebre la stessa Ullmann, nel remake HBO del bergmaniano Scene da un matrimonio.)
Ullmann e Bergman sono stati anche compagni di vita, e hanno vissuto insieme sull’isola svedese di Fårö, diventata il set di quei quattro film sopracitati, prima che la loro vita diventasse troppo claustrofobica per Liv. «Le litigate che si vedono in quei film, soprattutto nell’Ora del lupo e in Passione, sono quelle che loro due avevano nella vita reale», dice Peter Cowie, storico del cinema esperto di Bergman. Il suo nuovo saggio, God and the Devil: The Life and Work of Ingmar Bergman, uscirà nel corso di quest’anno. «La loro è stata una relazione davvero tempestosa. Lei era una musa che lui però non poteva controllare fino in fondo, perché ragionava e creava con la sua testa. Lui al tempo stesso ammirava e odiava tutto ciò, perché voleva essere il capo».
Ullmann e Bergman sono rimasti vicini fino alla morte di lui, nel 2007. «Era il mio migliore amico», spiega lei. «Ci siamo innamorati. Abbiamo avuto una figlia (la critica letteraria e scrittrice Linn Ullmann, ndt). La casa che lui ha costruito per noi a Fårö è ancora lì. È sempre uguale, con gli stessi mobili di allora. Lì ci sono le mie radici, ancora oggi».
Ma dentro Ullmann c’è un mondo molto più ampio, capace di superare il cinema di Bergman. Nel 1973 ha ricevuto una delle sue due nomination all’Oscar per Karl e Kristina di Jan Troell (l’altra è arrivata per L’immagine allo specchio di Bergman, del 1976). Ha pubblicato due autobiografie diventate bestseller, Cambiare (1977) e Scelte (1984). Se le chiedi di cosa va più fiera, lei però risponde le amicizie che ha saputo costruire nel corso degli anni, e la differenza che ha potuto fare col suo impegno umanitario in luoghi come Sierra Leone, Haiti e la Repubblica Dominicana. Per una donna che ha messo così tanto di sé nel lavoro, sembra che le più grandi soddisfazioni siano però arrivato al di fuori del lavoro stesso.
«Sono orgogliosa perché sono un po’ timida e mi sono sempre sentita impacciata nelle relazioni, e invece nella vita ho avuto la fortuna di incontrare così tante persone diverse», dice. «Quelle persone sono state spesso molto generose con me, e io ho avuto la possibilità di vedere la vita attraverso i loro occhi. Incontri persone che, per un motivo o per un altro, diventano i tuoi amici. Ho bisogno di loro, e credo che loro abbiano bisogno di me».
Nel documentario, molti volti celebri tessono le lodi di Ullmann: John Lithgow, che ha lavorato con lei nella riedizione di Anna Christie a Broadway nel 1977 (e che per breve tempo è stato un suo compagno di vita); Jessica Chastain; Cate Blanchett, diretta da Ullmann in un’acclamata versione di Un tram che si chiama desiderio di Tenneesse Williams; Sam Waterston, con Ullmann a teatro in Casa di bambola nel 1975 e al cinema in Mindwalk (1990); Jeremy Irons, accanto a lei nell’adattamento cinematografico dell’Anitra selvatica (dite il titolo di una pièce di Ibsen e c’è un’ottima probabilità che Ullmann l’abbia fatta, in qualsivoglia forma e ruolo).
È proprio Irons a fare un’affermazione con cui probabilmente Ullmann sarà d’accordo: «Uno dei problemi del successo è che porta la fama». Chastain invece osserva che Ullmann «celebra la fragilità e la distruzione». E come la stessa Ullmann nota più volte nel corso di The Road Less Travelled, sa qualcosa a proposito della rabbia e della sua forza dirompente, che emerge in modo chiaro nei film che ha realizzato con Bergman.
Oggi Ullmann osserva il mondo del cinema con un senso di distacco e disorientamento. Lamenta la mancanza di intimità provocata dall’uso del digitale: di certo non la vedremo unirsi ad altri stimatissimi colleghi in uno dei prossimi titoli Marvel. Non è sicura di cosa pensare di «questa cosa dello streaming», anche se osserva con ironia che questo documentario è disponibile proprio su una piattaforma di streaming. Sembra non essere abituata o interessata ad avere un qualsiasi tipo di interazione che non sia umana, il che spiega la sua profonda connessione con Bergman. Molti film del regista parlano di persone che si distruggono a vicenda, ma quelle persone sono fieramente vive, capaci di toccare il paradiso per poi sprofondare nell’inferno.
Tra i volti indelebili del cinema di Bergman – Liv Ullmann, Harriet Andersson, Bibi Andersson, Ingrid Thulin, Max von Sydow, Erland Josephson e Gunnar Björnstrand – solo Ullmann e Harriet Andersson, oggi 91enne, sono ancora vive (nessuno, del resto, può fermare Monica). «Purtroppo moltissimi se ne sono andati. Lui se n’è andato», sospira Ullmann. «Harriet è ancora qui, io sono ancora qui. Ma questa è la cosa brutta dell’essere vecchi: quelli che c’erano attorno a te non ci sono più».
Un giorno anche Ullmann se ne andrà. Ma adesso ha ancora la sua grandissima storia da raccontare. Ed è una storia che vale la pena di essere ascoltata.