Diciamocelo subito, fuori dai denti: di Titane fa molto più figo parlarne bene. Il rischio, altrimenti, è quello di passare per borghesi e piagnoni. O per Nanni Moretti. Di essere bollati, oltretutto, di conformismo: menti strette col golfino sulle spalle quando fuori è ancora estate. Ci sta: fa parte del gioco. Perché poi dentro a un film “fuori asse” e volutamente folle come Titane, la Palma d’oro (non troppo) a sorpresa di Cannes 2021, di cose belle ce ne sono tante.
Quello che infastidisce piuttosto è un po’ la patente di cinema “rivoluzionario” che gli è rimasta appiccicata addosso, quel “ti faccio vedere io” che, di eccesso in eccesso, sembra volerti indicare la strada maestra, quella “nuova”: che ok, bene, tuttapposto, ma se ci pensi un attimo Cronenberg già trent’anni fa…
Cromato, narcisistico, post cyborg, incestuoso, delirante: e volendo non abbiamo ancora detto niente. Perché Titane, l’opera seconda della 37enne francese Julia Ducournau, autrice anticonformista dal talento irregolare e fluido adorata da M. Night Shyamalan (che, lasciandole carta bianca, l’ha voluta a tutti costi nel team di Servant) e portata in palmo di mano in patria dall’intellighenzia cinefila dopo l’esordio bomba di Raw, è davvero, in qualche maniera, oltre e fuori dagli schemi. Un film sull’ossessione e sul martirio del corpo (modificato, martoriato, trasformato) dove carne e metallo si fondono nella creazione di un nuovo sé e forse di un altro mondo.
Una pellicola scioccante e violentissima che, senza perdere mai il controllo, muta essa stessa come e più della sua protagonista: cambiando pelle in continuazione, partendo come un film e diventando un altro, anelando libertà nel non offrire punti di riferimento allo spettatore, abbattendo le regole per uscire (e qui sì, il discorso è antico e modernissimo insieme) dai confini imposti e artificiosi della famiglia biologica per abbracciare quelli della famiglia scelta, voluta, d’elezione.
Là dove quella di Alexia (Agathe Rousselle, rivelazione non da poco, corpo scomodo di un film che la vuole sia martire che carnefice), che, dopo un incidente d’auto da bambina, viene rimessa a nuovo con protesi al titanio, è più di tutto una storia d’amore: cresciuta nel rifiuto del padre, diventa una serial killer che uccide sulle note di Nessuno mi può giudicare (don’t cry Julia, ma qui Parasite ti ha battuta sul tempo…), resta incinta di un’automobile (grazie a avventurosi e carenati amplessi) e per scappare all’arresto si traveste dal figlio scomparso di un vigile del fuoco che ha la faccia e i muscoli di Vincent Lindon, obbligato dalla regista e dal copione a mettere su a 62 anni un fisico assurdo per la sua età, complice un anno e mezzo di allenamenti, si dice, tostissimi.
Se il quadro vi è chiaro, capirete che Titane è sì la cosa più di rottura che si è vista nell’ultima edizione, un po’ troppo a modino, di Cannes: ma anche che affonda le radici in ossessioni (il corpo-macchina, la mutazione) che altri – vedi Cronenberg – avevano espresso, già diversi anni fa, con maggiore profondità. Il paragone immediato è con il più cerebrale (ma ben più geniale e urticante) Crash, anche se la Ducournau nel cuore ha La mosca.
Ma se vogliamo c’è qualcosa anche di Lynch e la macchina infernale (Christine) di Carpenter: il problema, se vogliamo, è che, tra riferimenti colti e b-movie, a volte sia la regista che il film si fermano un po’ troppo a guardarsi. Compiaciuti, oltretutto. Ma nello psicodramma di un bisogno di affetto a cui non servono parole né domande trovano sulla loro strada, come detto, anche cose molto belle: come il massaggio cardiaco al ritmo della Macarena, scena cult 2021.