Babygirl, un po’ applaudito un po’ spernacchiato alla proiezione stampa di ieri, è già uno state of mind al Lido. “Mado’, mo’ guardo pure io il cameriere diciottenne…”, sospirava un’amica ieri a cena. Il film dell’olandese Halina Reijn, in concorso, comincia con Nicole Kidman che simula un orgasmo davanti al marito Antonio Banderas. Poi corre in bagno, mette su un porno, e finisce la pratica da sola.
Due scene dopo, nella società ramo tech di cui è CEO arriva lo stagista Harris Dickinson, quello di Triangle of Sadness, e parte un triangolo saddissimo e sadomasochistissimo. Nicole fa, meravigliosamente, quello che le riesce meglio, cioè lanciarsi in ritratti di signore sfrenate e piene di big little lies. E anche se la stampa ha accolto il film così così – la straniera comunque meglio dell’italiana, al solito campionessa di pruderie – “se ne stiamo parlando da un’ora ha vinto lui”, diceva un’altra amica sempre ieri.
Abbiamo cenato alle dieci passate, che per il Lido è come chiedere un piatto di spaghetti alle cinque del mattino. Gli spaghetti erano finiti, vabbè, ma c’era la pizza e ci hanno lasciati a discutere di quelle cinquanta sfumature fino a mezzanotte passata. È accaduto un miracolo? Forse sì.
Il programma del resto era abbastanza miracoloso di per sé, e si conferma tale. Certo, Jolie che fa la Callas, in questa callara (cinquantasette gradi all’ombra, pensate a me tutte le sere sul red carpet con talvolta anche il misto lana: voglio essere solidale con Angelina impellicciata), schiera opposte tifoserie, ma non dovrebbe essere così per ogni film di ogni Mostra che Barbera manda in Terra? (Io, parentesi, ho già il mio preferito: Trois amies di Emmanuel Mouret, un Woody/Rohmer con un filotto di attori francesi strepitosi.)
Però c’è una strana calma, e non in senso mortifero manniano/viscontiano. Le sale son pienissime come sempre, ma – dicono voci di lungomare – quest’anno sono stati parecchio sfrondati gli accrediti, soprattutto quelli stampa (facciamoci sempre riconoscere, poi dice perché i giornali sono in crisi). E dunque c’è la quantità di gente che è giusto ci sia.
“Ma è tutto organizzato perfettamente!”, mi diceva stupitissimo un amico che è qui per la prima volta, quando ci siamo visti a pranzo (nel posto segreto che una volta solo io e i veneziani conoscevamo, ora qualcuno col badge – pietrificato dai bagnanti local che son peggio della Medusa – lo becchi: ma ieri, anche lì, era tranquillissimo). “Ma se lo sapevo che dopo le vacanze venivate qua con tutta ’sta quiete e ’sto ordine mi facevo mandare vent’anni fa”.
“Sbaglio o ci sono meno influencer rispetto a quelli che vedevo di solito sui giornali e sui social?”, diceva lo stesso amico, e forse sì, forse siamo finiti in un tunnel spazio-temporale ed eccoci in questo posto in cui dopo anni, come una volta, esistono solo i grandi divi, e la Callas, e il ritorno di Beetlejuice con Monica, e dove importano solo i film, e si riesce pure a mangiare! O forse, parlando di divi, gli influencer si sono sfrondati da soli: ci sono George, Brad, Lady Gaga, sicuro che ci conviene?
È un miracolo, o forse no. “Il cinema è come la cucina: ci vuole culo”, ho sentito dire a una signora che passava accanto a me stamattina, mentre andavo in sala. Non so di cosa stesse parlando, forse del fatto che anche lei ieri sera era riuscita a mangiare un piatto di sarde in saor alle undici. In ogni caso, aveva ragione: ci vuole culo, e Venezia è così bella che il culo, alla fine ma anche all’inizio, ce l’ha sempre.